Rito stanco che si ripete monotono
Gli studenti protestano per i propri diritti ma la scuola è un mondo complesso, non bastano soluzioni semplici per problemi complessi. Serve maggior coinvolgimento dei ragazzi nell’amministrazione della didattica.
| Società
Rito stanco che si ripete monotono
Gli studenti protestano per i propri diritti ma la scuola è un mondo complesso, non bastano soluzioni semplici per problemi complessi. Serve maggior coinvolgimento dei ragazzi nell’amministrazione della didattica.
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Gli studenti protestano per i propri diritti ma la scuola è un mondo complesso, non bastano soluzioni semplici per problemi complessi. Serve maggior coinvolgimento dei ragazzi nell’amministrazione della didattica.
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Gli studenti protestano per i propri diritti ma la scuola è un mondo complesso, non bastano soluzioni semplici per problemi complessi. Serve maggior coinvolgimento dei ragazzi nell’amministrazione della didattica.
Con la fine dell’anno termina anche la tradizionale stagione delle occupazioni nelle scuole italiane. Alcuni lo avranno forse dimenticato, complice la didattica a distanza imposta dalla pandemia, ma le scuole superiori di più o meno tutta Italia iniziano ad animarsi quando intorno all’inizio di novembre gli studenti si ricordano che è giusto protestare per i propri diritti, che la scuola non si fa così e che qualcuno in qualche palazzo del potere dovrebbe forse vergognarsi, se non dimettersi. È una stagione pressoché puntuale, che termina molto spesso poco prima dell’avvio delle vacanze natalizie; chissà che a pensar male stavolta qualcuno ci abbia indovinato.
D’altronde chi entra in una scuola superiore al primo anno lo sa: non sono più le scuole medie, qui si fa sul serio e c’è sempre la possibilità che gli studenti occupino la scuola. È un’azione a volte organizzata e a volte no, che parte comunque quasi sempre la mattina presto, all’arrivo del primo bidello a cui si fa “la prepotenza” (così qualcuno una volta la chiamò), cercando di impossessarsi delle chiavi per entrare e sbarrare l’ingresso ai docenti invasori. Il tutto può durare giorni, settimane o anche solo qualche ora, in base all’ardire di qualche decina di occupanti che a fatica cercano di convincere a unirsi alla causa i compagni che alla vista dello striscione “Liceo occupato” se ne tornano a casa a dormire.
Negli anni i presidi hanno pur cercato di mettere una toppa, alle volte concedendo alle prime avvisaglie di tumulto giornate di ‘didattica alternativa’. Quattro o cinque giorni in cui le lezioni vengono sospese a favore di attività organizzate da studenti e docenti che nella maggior parte dei casi si riducono a un cineforum tanto interessante quanto poco frequentato. Ecco che nasce la cogestione, già autogestione, che a raccontargliela i sessantottini si ribellerebbero. Da un lato docenti e presidi che non sanno – e forse nemmeno vogliono – ascoltare le istanze dei loro ragazzi; dall’altro studenti rassegnati che non credono poi nemmeno tanto che quello sia il modo migliore di farsi sentire, ma lo hanno fatto i loro compagni più grandi prima di loro e tutto sommato lo vedono come un atto sovversivo a simboleggiare il loro essere diventati uomini e (poche) donne, non più solamente studenti di scuola.
Quest’anno i licei sono tornati a essere occupati, specialmente nella capitale dove sono stati secondo alcuni addirittura quaranta. Qual è allora il punto? Forse ricordare alle parti in causa che la scuola è un mondo assai complesso e di non avere la presunzione di farsi portatrici di soluzioni semplici a problemi che semplici non sono. Alle direzioni generali e al Ministero dell’Istruzione si ricordi che invitare ogni tanto a parlare una Consulta studentesca sconosciuta non significa coinvolgere davvero gli alunni; ai presidi si ricordi che i loro studenti non sono solamente sovversivi da controllare ma persone da coinvolgere nell’amministrazione ordinaria della didattica: li scopriranno più attenti e maturi del previsto. Ai ragazzi si ricordi invece di portare sempre con loro un documento, che allo sgombero dell’occupazione può capitare che lo chiedano.
di Luigi Santarelli
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