Giappone, l’esempio virtuoso su come investire nell’istruzione scolastica: educazione civica, lettura, educazione finanziaria, informatica e lingue.
Siamo ben consci che la nostra scuola pecchi in fattiva democrazia, che non sia in grado di bilanciare le diseguaglianze sociali, bensì sottolinei le differenze. A ciò si aggiunge forse la pecca più grave: il nostro sistema scolastico nega ai giovani gli orizzonti globali, così rinchiudendo il loro destino entro le mura nazionali. Troppe volte da queste pagine abbiamo invitato i nostri politici a viaggiare, anche a nostre spese, purché importassero, anche da Paesi lontani, modelli utili allo sviluppo della nostra nazione.
Un esempio virtuoso ci giunge dall’Estremo Oriente. Da anni il Giappone è impegnato a investire nell’istruzione scolastica puntando su cinque punti fondamentali: educazione civica, lettura, educazione finanziaria, informatica e studio di ben quattro lingue. Non è affatto strano che, durante l’ora di educazione civica (nel Paese del Sol Levante non esiste la figura del bidello), studenti e professori puliscano la propria scuola. Il rispetto verso il prossimo, l’assumersi le proprie responsabilità, li si insegna anche così. Durante la lezione di lettura viene richiesta un’accurata comprensione del testo; quest’ultima, in Italia, viene spesso ignorata, forse perché ritenuta poco importante per affrontare il futuro. L’educazione finanziaria mira soprattutto alla gestione dei propri denari e a essere in grado di affrontare questioni assicurative e previdenziali. Nel nostro Paese, fuori dalla scuola, solo il 30% è dotato di alfabetizzazione cosiddetta finanziaria; ciò vuol dire che il nostro sistema educativo non fornisce le competenze minime, necessarie per assumere con cognizione di causa decisioni finanziarie responsabili. Nel complesso (ultimi dati Ocse Pisa), solo il 20% degli studenti italiani sa districarsi in tal senso: a livello di competizione globale siamo, fra i Paesi industrializzati, il fanalino di coda.
Sempre in Giappone la scuola indirizza i ragazzi, con un monte ore adeguato, a essere padroni dell’unica lingua che d’ora in poi permetterà lo sviluppo globale: quella digitale. Da noi, spesso e volentieri, il sistema informatico scolastico – sotto forma di lavagna Lim – li impegna in giochini e ameni passatempi. Infine, lo studio delle quattro lingue serba in sé una ricchezza sconosciuta ai nostri politici: nel mondo globalizzato, il solo modo di reggere la competizione economica è uscire dai propri confini, interfacciarsi con altre culture e costumi. A questo servono le lingue. Questo dovrebbe fare la scuola.
di Matteo Grossi
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