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Una società ingessata in un Paese che fa soldi e ne perde altrettanti

L’Italia è un Paese abituato ad accontentarsi sempre. Abbiamo generato una società ingessata in cui la quota attiva e pronta a cogliere le straordinarie opportunità dell’era digitale è stata zavorrata dal corpaccione annoiato.
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Una società ingessata in un Paese che fa soldi e ne perde altrettanti

L’Italia è un Paese abituato ad accontentarsi sempre. Abbiamo generato una società ingessata in cui la quota attiva e pronta a cogliere le straordinarie opportunità dell’era digitale è stata zavorrata dal corpaccione annoiato.
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Una società ingessata in un Paese che fa soldi e ne perde altrettanti

L’Italia è un Paese abituato ad accontentarsi sempre. Abbiamo generato una società ingessata in cui la quota attiva e pronta a cogliere le straordinarie opportunità dell’era digitale è stata zavorrata dal corpaccione annoiato.
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L’Italia è un Paese abituato ad accontentarsi sempre. Abbiamo generato una società ingessata in cui la quota attiva e pronta a cogliere le straordinarie opportunità dell’era digitale è stata zavorrata dal corpaccione annoiato.
Il nostro è un Paese ormai abituato ad accontentarsi sempre. Brutta cosa. In Italia si vive bene (anche molto a lungo, ma guai a ricordarlo in ottica welfare), nella penisola non mancano certo le sacche di disagio – anche gravi – ma persino nelle zone apparentemente più lontane dal cuore economico d’Europa ci si può far cullare dalla consapevolezza di quanto sia difficile trovare posti più belli dove alzarsi al mattino o sedersi a tavola per il pranzo e la cena. Non si vive affatto male, insomma, anche dove non si vive bene e sembra esserci ben poco da fare. Purché ci si accontenti. Aggiungeteci anni di martellamento ossessivo, secondo il quale nessuno di noi avrebbe la minima responsabilità per ciò che gli capiti durante la vita lavorativa e la frittata è pronta. In cambio dell’occasionale voto e del quotidiano like, ci è stato raccontato di tutto, a cominciare dal concetto più “rivoluzionario”: lavorare non è né necessario né obbligatorio. Siamo il Paese che è arrivato a codificare non una forma di sostegno e riavvio all’occupazione di chi l’abbia persa, ma la versione comunistoide di un’assistenza fine a sé stessa, vissuta come un diritto. Una scelta dalle conseguenze catastrofiche sul piano morale e della credibilità del sistema-Paese. Un luogo dove tutti chiedono, tutti pretendono, tutti hanno motivo di lamentarsi, senza prendersi la briga di farsi uno straccio di domanda sul proprio impegno e contributo al bene collettivo. Facciamo sempre le stesse cose da decenni, pur sapendo che non ci faranno crescere. Tanto non sarà mai colpa nostra, ci sarà sempre un uomo nero, un’istituzione sovranazionale, l’onnipotente finanza dal canino sanguinante e i circoli ultrasegreti a cui addossare ogni responsabilità. Mancano giusto i marziani e i complottisti alla Dan Brown e il quadro sarebbe completo. Abbiamo finito per generare una società ingessata in cui la quota attiva, curiosa, pronta a confrontarsi con il nuovo e approfittare delle straordinarie opportunità dell’era digitale è stata zavorrata oltre ogni limite dal corpaccione annoiato, ben pasciuto e soddisfatto di un’Italia sempre uguale. Siamo un Paese che vince e perde allo stesso tempo, fa un sacco di soldi e ne perde altrettanti. Siamo sempre noi. Anche nei riti collettivi, finiamo per assistere a spettacoli di una noia mortale nella loro ripetitività. Si prenda a esempio il Concertone” del 1 maggio a Roma, vera e propria liturgia dell’immutabile. Tutti in fila, i sindacati fanno finta di essere ancora al centro del mercato del lavoro, i media coprono l’evento manco fosse Woodstock per un mix di noia, riflesso condizionato e mancanza di alternative e il pubblico fa finta che gli alti messaggi possano rendere questo appuntamento diverso da un qualsiasi Sanremo o Eurovision. Un conformismo sconfortante, che fa scambiare gli scontati boati della folla – ci mancherebbe pure! – al momento dell’esibizione dei cantanti ucraini o dei richiami al dramma dei morti sul lavoro per pensosa partecipazione a un movimento di massa. Che non esiste. È solo la liturgia delle rispettive parti in commedia, pronta ad adattarsi alle diverse esigenze di immagine. Dovremmo scegliere il coraggio di cambiare sul serio. Lecito chiedersi chi si assumerà l’onere di andare davanti a una piazza gremita di ragazzi e dir loro che, prima di insultare l’universo mondo per supposto furto di futuro, dovrebbero stramaledire gli adulti che hanno trasformato la scuola in una barzelletta fuori dal mondo, l’università in un universo astratto e incapace di preparare al lavoro. E ancora: che merito, impegno e talento possono indirizzare la nostra vita più di qualsiasi conoscenza di mamma e papà, ma che per farlo vanno accettati la sana e onesta competizione, il giudizio e la valutazione, la possibilità di sbagliare e sbagliare ancora, finché non saremo sulla giusta strada. A qualsiasi età. Servirebbe come l’aria questa temerarietà, nell’Italia degli eterni adolescenti carini e coccolosi (cit.). Cercasi ruvidi onesti, nel Paese che ha scelto il falso che rassicura. di Fulvio Giuliani

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