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Viaggio nell’isola di Asinara abbandonata a se stessa

L’Asinara da luogo simbolo di un’altra Italia a sito abbandonato al proprio destino. L’idea di aprire l’isola a un turismo controllato rispettoso dell’ambiente circostante c’è, i soldi non mancano, allora cosa lo impedisce? Ne abbiamo parlato con Giovanni Cubeddu, commissario straordinario del Parco nazionale dell’Asinara

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Viaggio nell’isola di Asinara abbandonata a se stessa

L’Asinara da luogo simbolo di un’altra Italia a sito abbandonato al proprio destino. L’idea di aprire l’isola a un turismo controllato rispettoso dell’ambiente circostante c’è, i soldi non mancano, allora cosa lo impedisce? Ne abbiamo parlato con Giovanni Cubeddu, commissario straordinario del Parco nazionale dell’Asinara

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Viaggio nell’isola di Asinara abbandonata a se stessa

L’Asinara da luogo simbolo di un’altra Italia a sito abbandonato al proprio destino. L’idea di aprire l’isola a un turismo controllato rispettoso dell’ambiente circostante c’è, i soldi non mancano, allora cosa lo impedisce? Ne abbiamo parlato con Giovanni Cubeddu, commissario straordinario del Parco nazionale dell’Asinara

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L’Asinara da luogo simbolo di un’altra Italia a sito abbandonato al proprio destino. L’idea di aprire l’isola a un turismo controllato rispettoso dell’ambiente circostante c’è, i soldi non mancano, allora cosa lo impedisce? Ne abbiamo parlato con Giovanni Cubeddu, commissario straordinario del Parco nazionale dell’Asinara

Don Giorgio, il cappellano del carcere, cucinava delle orate meravigliose. «È proprio così, posso confermarlo» esordisce Giovanni Cubeddu, commissario straordinario del Parco nazionale dell’Asinara, mentre accarezza Severino, l’asino più anziano, imparentato con la metà dei 500 esemplari presenti sull’isola.

Cubeddu conosce questo fazzoletto di terra – lungo 17 chilometri e largo in alcuni punti appena 250 metri – come le proprie tasche. Qui ha esercitato l’attività di veterinario fino al 1998, l’anno in cui il parco è diventato un’area marina protetta e il noto carcere di massima sicurezza è stato chiuso definitivamente, trasformando l’Asinara da luogo simbolo di un’altra Italia a un sito abbandonato al proprio destino.

Siamo negli anni Settanta, nel pieno degli Anni di piombo. Serve un luogo dimenticato da Dio, un’Alcatraz all’italiana. E l’Asinara è la soluzione perfetta. Vi vengono incarcerati i brigatisti più sanguinari, i mafiosi al 41-bis, i criminali matricolati: Totò Riina, Raffaele Cutolo, Renato Vallanzasca sono tutti passati per le sue celle. Ed è sempre qui che Falcone e Borsellino, in un piccolo villino rosso affacciato sul mare, vengono a imbastire il dossier per il maxiprocesso a Cosa Nostra. L’unico a riuscire a fuggire dall’isola fu Matteo Boe, uno dei sequestratori di Farouk Kassam (il piccolo ostaggio a cui fu tagliato un pezzo di orecchio), grazie alla compagna che rimase nascosta su un gommone lì vicino per quasi un mese. Finito di scontare la pena, Boe fa ora la guida sul Gennargentu (ma guarda un po’…).

Di quell’epoca oggi restano i racconti e gli scheletri di una decina di case circondariali. Se si ha la fortuna di visitare il territorio con una guida, si notano per esempio quella dedicata ai pedofili – rinchiusi a debita distanza per scampare alla ‘legge’ del carcere – e quella dove invece i detenuti potevano andare a lavorare nei campi e dedicarsi all’allevamento: asini (molti dei quali albini, variante autoctona derivante da una mutazione genetica dell’asino grigio), cavalli, pecore, capre, maiali. In origine l’Asinara nasce infatti come colonia penale agricola. Altro che carcere duro: contatto con la natura, aria buona, clima incantevole, mare stupendo. Quasi una villeggiatura, con tanto di pet therapy inclusa nel ‘pacchetto’.

«Con molti di questi detenuti si è creato anche un rapporto speciale» spiega Cubeddu, che qui ha fatto crescere la propria figlia fino ai 10 anni di età. «C’erano una scuola, il cinema, ristoranti, eravamo una microcomunità a cui non mancava nulla. Poi la decisione di chiudere tutto. Ma non si può abbandonare un pezzo di Storia senza prendersene più cura». Sono infatti otto anni che il Parco dell’Asinara non ha un consiglio di amministrazione. Eppure nell’edificio che un tempo ospitava l’ospedale e che oggi è la sede dell’organizzazione che gestisce il parco non manca nulla: il tavolo ovale, la stampante collegata alla parete, nei bagni c’è persino la carta igienica.

Servono soltanto le persone: «Spero che si decidano a trasferire la competenza territoriale sull’Asinara da Cagliari a Porto Torres, perché la vicinanza al territorio è essenziale. Io qui vengo quasi tutti i giorni e saprei come valorizzarlo, se solo avessi un incarico a lungo termine» osserva ancora Cubeddu.

L’Asinara accoglie ogni anno 100mila persone a cui l’Ente parco vorrebbe e potrebbe offrire molto di più se ottenesse la gestione degli immobili, oggi per l’80% di proprietà della Regione Sardegna e per il 20% del Demanio: «Ci piacerebbe poter realizzare un museo che mostri come funzionava l’isola quando era abitata dai detenuti e da ben 700 addetti ai lavori. Dal carcere di massima sicurezza, che ospitava 120 detenuti in celle singole, sarebbe bello ricavare delle stanze dove ospitare i turisti».

Ovviamente si tratterebbe di un turismo controllato, con accessi regolati (come del resto già accade): «Questo per preservare la fauna, che pure ha bisogno di essere controllata perché altrimenti finirebbe col sovrappopolare l’isola», considerato che i capi eccedenti vengono dati in affido al di fuori dell’Asinara. «A tal proposito abbiamo pronta una lettera sottoscritta dal sindaco di Porto Torres e da me indirizzata alla Regione e alla Conservatoria delle Coste perché si decidano ad affidarci gli immobili e velocizzino la messa al bando per il controllo numerico degli animali» conclude il commissario Cubeddu.

Oggi sull’isola risiedono soltanto tre persone: un maresciallo dei carabinieri – da solo nella grande caserma dove una volta era un continuo andirivieni di appuntati – e due ex agenti della polizia penitenziaria che non ce l’hanno fatta a lasciare l’Asinara. In cuor loro sperano sempre che il piccolo paese dove hanno trascorso gran parte della loro vita torni a ripopolarsi come un tempo.

di Ilaria Cuzzolin

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