Partorirai con dolore
| Società
Secondo un’indagine Doxa, 2 donne su 10 hanno subito violenza ostetrica, il 41% afferma di aver percepito una violenza più subdola. La mancanza di empatia di medici e sanitari ha una spiegazione scientifica ma senza formazione diventa oltremodo pericolosa per le pazienti
Partorirai con dolore
Secondo un’indagine Doxa, 2 donne su 10 hanno subito violenza ostetrica, il 41% afferma di aver percepito una violenza più subdola. La mancanza di empatia di medici e sanitari ha una spiegazione scientifica ma senza formazione diventa oltremodo pericolosa per le pazienti
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Partorirai con dolore
Secondo un’indagine Doxa, 2 donne su 10 hanno subito violenza ostetrica, il 41% afferma di aver percepito una violenza più subdola. La mancanza di empatia di medici e sanitari ha una spiegazione scientifica ma senza formazione diventa oltremodo pericolosa per le pazienti
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Secondo l’indagine Doxa resa pubblica nel 2016 riguardo le donne e il parto – riferita a dati raccolti nell’arco di circa 14 anni – due donne su dieci hanno subìto violenza ostetrica vera e propria nel periodo della gravidanza e del parto, mentre il 41% afferma di aver percepito da parte del personale sanitario una qualche forma di aggressione più subdola ma comunque lesiva della dignità. Qualsiasi trattamento irrispettoso o abusante verso una partoriente è definibile come violenza ostetrica e, per quanto in Italia non esista ancora una legge che tuteli chi la subisca, se ne comincia a parlare sempre di più.
I racconti di tante donne – lasciate a gambe spalancate su lettini ginecologici in bella vista, con specializzandi che passano e guardano come si osserverebbe una cavia da laboratorio, dilatate a forza da ostetriche sbrigative, rimproverate aspramente se lamentano dolore, a cui viene negata l’epidurale o imposto il cesareo – non possono lasciare indifferenti. Al netto della mancanza endemica di personale, delle difficoltà organizzative degli ospedali, del carico di lavoro spesso eccessivo che gli operatori sanitari devono sopportare, quello che emerge è una pressoché totale mancanza di empatia per pazienti che stanno attraversando un momento molto delicato della propria vita e che vengono etichettate come “viziate” o “isteriche” solo perché non riescono a stare zitte e ferme come gli viene richiesto.
Ci si chiede perché persone che scelgono una professione sanitaria, che dovrebbero essere animate da altruismo ed empatia per il prossimo, finiscano per agire con tale freddezza e cinismo. Senza generalizzare, la proverbiale fermezza di certe infermiere “anziane” va spesso a braccetto con un’eccessiva rudezza nel trattare le pazienti. In realtà esiste una spiegazione neurobiologica a questi comportamenti, documentata da uno studio realizzato dai ricercatori delle Università di Chicago e di Taipei e pubblicato nel 2007 sulla rivista scientifica “Current Biology”. Si tratta di un meccanismo difensivo messo in atto per evitare un pericolo, che si traduce in un’attivazione delle aree del cervello in cui vengono regolate e controllate le emozioni e nello ‘spegnimento’ delle regioni cerebrali relative invece all’empatia e all’immedesimazione.
Quando osserviamo qualcuno che prova dolore, i nostri circuiti neurali lo registrano e noi “soffriamo con”. A medici e sanitari non accade lo stesso. E meno male, in realtà. Se un medico o un infermiere empatizzassero col dolore di ogni paziente, il carico di stress che questo comporterebbe non sarebbe sostenibile e la soglia del burn out si abbasserebbe pericolosamente. Questa risposta neurobiologica, naturale e protettiva, rischia però di diventare un pericolo quando impatta sulla capacità del personale sanitario di comunicare in modo adeguato e rispettoso con una paziente che sta vivendo un’esperienza totalizzante come quella del parto e che necessita di grande attenzione e delicatezza.
Senza un’adeguata formazione nella comunicazione medico-paziente difficilmente si potrà arginare il problema. Si continuerà a dare la colpa a singoli professionisti, definiti poco sensibili o persino violenti, li si potrà punire ma non si modificherà una cultura ospedaliera fin troppo centrata sulla salute fisica e con scarsa attenzione a quella mentale ed emotiva.
Di Maruska Albertazzi
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