C’era una volta l’Italia. Con la sua fame di crescere. Di esser meno povera. Di sfamarsi. Di diventare finalmente un Paese all’avanguardia, senza il bisogno di allungare la mano a chi se la passasse meglio, per chiedere un sostegno. C’era una volta. Perché oggi questa Italia non c’è più.
Se n’è accorto persino il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, la guida degli industriali del Belpaese, che a margine della presentazione del corto “Centoundici” alla Biennale del cinema di Venezia, ha sottolineato: «Questo Paese oggi ha smesso di sognare, solo sognando si può pensare di ricostruire il nostro Paese. Il parallelismo con gli anni del dopoguerra è perché allora i nostri padri avevano un sogno meraviglioso, e un sogno serve per progettare un futuro migliore».
Non vi è dubbio: i nostri padri avevano fame e la ferma volontà di riuscire ad andare a dormire dopo avere sgranocchiato qualcosa sotto i denti, magari a fatica. Con il sudore della fronte e con la battaglia quotidiana di chi non accetta l’immutabilità del proprio destino miserevole. E proprio qui, nel motore di una mobilità sociale che incarna il nostro viver comune odierno, si annida l’interrogativo del presente. A ramengo le miserie del passato e largo ai diritti di oggi: ma basterà? La risposta è assai complicata. A meno che, riallacciandosi alle parole del presidente di Confindustria, questo Paese non ritrovi la capacità di sognare. Già. Sognare. Senza il timore di svegliarsi. Che i sogni son migliori (quasi sempre) della realtà.
di Jean Valjean
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