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Cattivik la macchia nera

La sfortunata storia editoriale del fumetto italiano più cattivissimo
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Nel 1965 le edicole italiane sono invase dal fenomeno del ‘fumetto nero’, una pletora di testate ispirate in larga parte dal successo di Diabolik che condividono copertine scabrose – almeno per la sensibilità dell’epoca – e personaggi cattivi o senza scrupoli. Donne, uomini, ladri, streghe, scienziati e assassini: ogni autore cerca di ricavare la sua fetta di fortuna con la sua declinazione di questo nuovo genere fumettistico, con l’unica regola fissa di inserire una K nel nome del protagonista. Un parossismo editoriale che provoca pensosi e accigliati dibattiti sulla capacità del fumetto di traviare i giovani, il cui lato comico non sfugge al fumettista Franco Bonvicini detto Bonvi. Così un giorno questi decide di mettere due occhi, una bocca, gambe e braccia a una macchia di china su un foglio per far nascere Cattivik, pronto a superare tutti i concorrenti con la sua ottusa malvagità. Ottusa perché le sue malefatte non raggiungono mai l’esito desiderato, risolvendosi soltanto in qualche imprecazione che Cattivik ‘pronuncia’ nel suo gergo pseudo dialettale con cui tronca l’ultima lettera delle parole. La sua prima apparizione è in sordina, su un giornalino studentesco modenese intitolato “Il Giuseppo” e poi su una testata simile chiamata “Look”, prima di arrivare nel 1970 sulla rivista “Tiramolla” (dedicata al personaggio eponimo) delle Edizioni Alpe. Una produzione irregolare, figlia di un situazionismo parodistico e di un contesto assai umile piuttosto che della volontà di proporre una nuova icona nel panorama del fumetto. Secondo quanto riferisce lo stesso Bonvi, Leonello Martini – direttore creativo della Alpe – ha fame di qualsiasi cosa sia pubblicabile sottocosto («Purché non faccia proprio schifo» precisa l’autore) e perciò prende di tutto. Sebbene pagato poco, l’accordo ha però il pregio di permettere una libertà assoluta di contenuti, dato che l’editore guarda a malapena le strisce prima di stamparle. Questo permette a Bonvi di mandare il suo Cattivik persino a contestare la Prima della Scala, anche se la giovane età del pubblico di “Tiramolla” lo allontana dal tono macabro e serioso degli altri fumetti ‘kappati’ preferendo invece avventure grottesche e scanzonate. Bonvi si diverte tanto a concepirle che quando deve cedere la parte grafica al suo allievo Silver (al secolo Guido Silvestri) a causa del successo del suo Nick Carter, mantiene comunque fino al 1972 il ruolo di sceneggiatore. Con Silver la silhouette di Cattivik muta dal ‘peperone’ di Bonvi a una ‘pera’, arrivando alla sua forma iconica di vera e propria goccia d’inchiostro (sebbene sia sempre un uomo in calzamaglia nera). Nel 1975 il personaggio approda quindi sul “Corriere dei Ragazzi” ormai del tutto in mano all’allievo, ma per la seconda volta il successo di un altro fumetto mette in crisi la produzione di Cattivik. Stavolta è infatti Lupo Alberto che distrae Silver, che ingaggia le matite di Massimo Bonfatti, Giacomo Michelon e Giorgio Sommacal per quello che diventerà un ritmo di pubblicazione sempre più occasionale. Seppur amato dal pubblico, per questa serie di coincidenze Cattivik è rimasto così un ‘figlio minore’ del fumetto italiano. di Camillo Bosco  

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