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Prima di Zerocalcare c’era Dilbert

La puntuale catarsi della striscia di Scott Adams in un mondo dominato dagli uffici.
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Prima di Zerocalcare e del suo Armadillo c’erano Dilbert e il suo cane Dogbert. Mentre però la fonte della creatività del trentanovenne Michele Reich – la persona dietro il nom de plume da sturalavandini – si trova nel disagio orgoglioso e anarcoide della periferia romana, la vena dei personaggi del sessantacinquenne Scott Adams deriva invece dell’eguale e contrario irrequieto disagio della media borghesia impiegatizia che affolla i sobborghi statunitensi. Distanti sia geograficamente che anagraficamente, i due sono tuttavia accomunati dall’uso astuto di un animale antropomorfo come comprimario che permette al protagonista delle loro strisce di spiegarsi al pubblico senza monologhi impacciati o dialoghi poco naturali. D’altronde, quando si parla a sé stessi anche nella forma mediata di un animale totem, si tende a essere franchi e fulminanti; due qualità che ammaliano da sempre i lettori. Così come Zerocalcare è indistinguibile da Reich, specialmente se complementato dagli “sticazzi” del mammifero xenarthra (sdentato) che lo accompagna, così anche Dilbert viene dall’esperienza di vita del suo creatore. Adams ha infatti lavorato per decenni come cubicle man (uomo cubicolo) sia in banca che in una compagnia telefonica e proprio tra quelle tre pseudo pareti che hanno delimitato per anni il suo spazio lavorativo ha sviluppato il gusto di raccontarsi in strisce. D’altronde cos’è il personaggio di un fumetto se non una persona racchiusa nell’eterno cubicolo di una vignetta? E a chi stesse per mancare l’aria al pensiero di Spider-Man prigioniero dei suoi stessi fumetti, ricordo che la recente tendenza di reflusso verso uffici open space (a spazio aperto) ha condotto a panoptikon fantozziani piuttosto che al paradiso in Terra. Al netto quindi del dibattito su quale sia la configurazione meno atroce per un luogo di lavoro, è certo che Scott Adams nel 1988 rilevò la suddetta similarità tra il suo e le vignette. Decise così di iniziare disegnando cinquanta strisce capaci di sublimare, nella libertà del medium, gli aneddoti più grotteschi e insensati della sua carriera: rivalità tra colleghi, ossessioni, soprusi e altre spiacevolezze generiche intrinseche a un qualsiasi ambiente lavorativo. Inviò poi questa robusta selezione alle varie organizzazioni che si occupavano di pubblicare i fumetti sui quotidiani – cioè i syndicate (sindacati) – e con sua somma sorpresa a rispondergli positivamente fu nientemeno che lo United Feature Syndicate, la stessa società che curava i “Peanuts” di Schulz. Una scelta corretta. Sebbene Adams narri nelle sue strisce vicende attinenti a un ambiente triste e retrogrado – dove il più furbo è quello che lavora meno e ha il miglior atteggiamento servile verso i capi – l’estrema sintesi del suo tratto e il tono tagliente degli scambi fra i personaggi fanno emergere l’ironia dietro questi meccanismi. L’ufficio di Dilbert è sempre al limite della follia ma gli occhiali inespressivi del protagonista (privo anche di segno grafico per la bocca), la sua cravatta regimental rossonera (riferimento non casuale alla livrea anarchica) e soprattutto la sua imbranatura impediscono alla situazione di tracimare in un reale caos. Ogni striscia di Adams, composta sempre da tre vignette, diviene in questo modo un puntuale momento catartico che consente al lettore di liberarsi dall’ansia di subire in solitudine la surrealtà della vita. Di Camillo Bosco

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