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La rabbia e la voglia di emergere

Sono ragazzi molto giovani ma si sentono senza futuro, seguitissimi sui social ma troppo vicini alla criminalità: il fenomeno delle Baby Gang è sinonimo anche del fallimento degli adulti.
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La rabbia e la voglia di emergere

Sono ragazzi molto giovani ma si sentono senza futuro, seguitissimi sui social ma troppo vicini alla criminalità: il fenomeno delle Baby Gang è sinonimo anche del fallimento degli adulti.
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La rabbia e la voglia di emergere

Sono ragazzi molto giovani ma si sentono senza futuro, seguitissimi sui social ma troppo vicini alla criminalità: il fenomeno delle Baby Gang è sinonimo anche del fallimento degli adulti.
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Sono ragazzi molto giovani ma si sentono senza futuro, seguitissimi sui social ma troppo vicini alla criminalità: il fenomeno delle Baby Gang è sinonimo anche del fallimento degli adulti.
Uno ha più di 570mila follower, l’altro oltre 250mila. Cantano di rabbia, disagio e sono gli idoli dei ragazzini che vivono nei quartieri ‘difficili’ delle grandi città, ma non solo. La notizia che Baby Gang, nome d’arte di Zaccaria Mouhub, e Amine Ez Zaaraoui, in arte Neima Ezza – entrambi ventenni, entrambi rapper – siano stati arrestati per alcune rapine compiute ai danni di coetanei è solo l’ultimo fatto di cronaca che racconta un fenomeno prepotentemente alla ribalta in questi mesi. Che ha radici però ben più profonde e che va ben oltre i nomi, pur piuttosto noti, di chi di volta in volta finisce sui giornali. Sono immigrati di seconda generazione, molti anche minorenni, ma già si sentono in qualche modo senza un futuro. Come ci racconta Andrea Franzoso, che è stato per quasi dieci anni ufficiale dei Carabinieri e che ha raccolto in un libro la storia di Daniel Zaccaro. S’intitola “Ero un bullo” (De Agostini) e meglio di così non poteva essere sintetizzato il racconto emblematico di come si diventa ‘bulli’ e di come si possa anche smettere di esserlo. È raro che qualcuno di loro accetti di parlare in pubblico – amano i social tanto quanto odiano giornalisti e telecamere – eppure soltanto ascoltarli può davvero aiutare a comprendere. Daniel è cresciuto a Quarto Oggiaro, periferia di Milano, e la sua strada l’ha scelta già da ragazzino, quando ha iniziato a soffrire il confronto con i suoi coetanei che a differenza sua indossavano vestiti firmati. Si vergognava di quello che indossava, non si sentiva all’altezza. La prima rapina l’ha fatta per comprarsi il giubbotto che avevano i ragazzi ‘perbene’. Si sentiva giudicato e ha scelto di guadagnarsi il ‘rispetto’ di chi lo guardava dall’alto in basso usando la lingua della violenza. Prendeva a pugni perfetti sconosciuti, perché lo fissavano troppo a lungo. Violenze, furti e rapine: un ritornello che si ripete nel suo come in tanti altri casi. Con la costante che queste ‘imprese’ vengono filmate, perché questi ragazzi vogliono essere visti. Agiscono spinti dalla volontà di emergere, a qualsiasi prezzo. Anche se poi finiscono in carcere per quattro anni, come è successo a Daniel. Lui spiega che proprio lì dentro ha incontrato «per la prima volta degli adulti che meritavano il mio rispetto». Parla di un brigadiere della Penitenziaria, di una insegnante che fa volontariato in carcere, di un prete. Sono stati per lui i primi esempi veri, così come le prime persone che gli hanno dato fiducia. Daniel Zaccaro si è laureato, è diventato un educatore e oggi parla di sé ma parla soprattutto a quelli che sono com’era lui prima di cambiare strada. In questo vi è un messaggio importante, che chi ha raccolto la sua storia sottolinea di continuo: sono ragazzi che hanno una grande rabbia dentro ma che non si sentono ascoltati. Per questo usano la musica per esprimersi. E se nessuno giustifica un reato, è giusto sottolineare che un ruolo in tutto questo ce l’hanno anche gli adulti. Che dei giovani parlano ma senza parlare ai giovani. Che li giudicano, senza chiedersi quale sia l’esempio che loro stessi danno, a questi ragazzi. di Annalisa Grandi 

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