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I Tubes, la band più odiata d’America

La loro opera rock “Remote Control” parlava di come la televisione distruggesse l’infanzia e rimbecillisse l’America.
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I Tubes, la band più odiata d’America

La loro opera rock “Remote Control” parlava di come la televisione distruggesse l’infanzia e rimbecillisse l’America.
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I Tubes, la band più odiata d’America

La loro opera rock “Remote Control” parlava di come la televisione distruggesse l’infanzia e rimbecillisse l’America.
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La loro opera rock “Remote Control” parlava di come la televisione distruggesse l’infanzia e rimbecillisse l’America.
È difficile fare satira in Arizona. Specie alla fine degli anni Sessanta, quando tutto ciò che puzzi di modernità può scatenare la violenza in uno qualunque dei bar in cui vai a suonare. Per questo Vinnie Walnick, figlio di emigrati prussiani, amante della musica europea e dell’operetta, racconta: «Facevamo credere che suonassimo il country. Poi, una volta sul palco, facevamo parodie western di Frank Zappa e dei Led Zeppelin. Tanto, laggiù, nessuno sapeva chi fossero. Finché qualcuno ha cominciato ad ascoltare i testi e noi siamo dovuti scappare in California per non finire ammazzati».

San Francisco, nel 1968, ha spazi immensi, ma sono rarissime le band con le tastiere: pesano, hanno bisogno di amplificazione, non le puoi suonare agli angoli delle strade.

Vinnie ci arriva con un amico, Bill “Sputnik” Spooner, che suona la chitarra in una cover band dei Beatles, sempre in Arizona. Per ottenere un contratto stabile con un bar, i due devono fare qualcosa di unico. E lo fanno: sviluppando il modello teatrale dei Grateful Dead e dei Fugs, il loro concerto è uno spettacolo di satira politica, di battutacce di terz’ordine, di brani famosi con il testo cambiato. E funziona. Negli anni Settanta la loro band, The Tubes, diventa l’avanguardia mondiale del rock elettronico e della satira musicale. Senza i Tubes, artisti come Renato Zero in Italia, Falco in Austria o i Monty Python in Gran Bretagna non sarebbero mai esistiti nella forma in cui li conosciamo. Strumentisti virtuosi (tant’è vero che il primo contratto gliel’ha procurato Rick Wakeman, il tastierista degli Yes, che allora era considerato il migliore al mondo), costruivano le loro scenette partendo da canzonette e temi musicali di serie tv, film, pubblicità per poi dar vita a universi di musica elettronica, storielle, danza, follia pura.

Nel 1978 il più grande produttore dell’epoca, il musicista Todd Rundgren, li incoraggia a fare una vera opera rock – con testi e musiche originali – e gli organizza un tour mondiale per l’anno dopo.

Ne nasce un capolavoro, “Remote Control”, che parla di come la televisione distrugga l’infanzia e rimbecillisca l’America. Uno spettacolo adorato a Broadway, in Giappone, in California, in Inghilterra e odiato in ogni altra parte del mondo. In alcune nazioni i concerti vengono addirittura cancellati subito dopo l’uscita dei primi video. Vinnie e Bill hanno pronto un nuovo spettacolo che non verrà mai registrato. La casa discografica ha paura. Zappa, che li adora, commenta: «In America è proibito essere divertente, puoi solo essere stupido». La produzione li trasforma in una band del nascente elettropunk. Vendono tantissimo ma litigano tra loro e preferiscono non continuare. Vinnie viene preso dai Grateful Dead, gli altri smettono di suonare, la loro musica viene dimenticata. Vinnie ci prova ancora, ancora e ancora. Finché, nel 2006, si suicida, disperato: «Credevo che la musica fosse libertà, invece può diventare un castigo».   Di Paolo Fusi

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