Quello sul fine vita è un dibattito mai davvero sopito. Il tema è molto complesso, puntualmente si ricade in un limbo normativo e resiste tuttora un grande tabù culturale. La questione deve necessariamente essere affrontata.
Un dibattito mai davvero sopito, quello sul fine vita. L’ultimo caso è quello di Samantha D’Incà, 31 anni, in coma irreversibile dopo un’operazione. Suo padre è stato nominato amministratore di sostegno ma non potrà decidere in autonomia se far staccare le macchine che tengono in vita la figlia. L’ultima parola spetta ai medici.
Il tema è complesso e puntualmente si ricade in un limbo normativo. L’Italia non è la Svizzera, ma la questione deve necessariamente essere affrontata, come da più parti e a più riprese è stato chiesto. Chi decide per coloro che non possono più decidere? Nel 2018 è entrata in vigore la legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento: prevede il diritto di ciascuno di conoscere le proprie condizioni di salute e i trattamenti a cui deve essere sottoposto così come le possibili alternative e le conseguenze di un eventuale rifiuto delle cure. Una norma che solleva i medici dalla responsabilità in caso di rifiuto delle cure, ma che prescrive anche l’«astensione da ogni somministrazione irragionevole». La norma prevede anche la possibilità di far depositare presso un notaio e in Comune le Disposizioni anticipate di trattamento: una persona può stabilire se, in caso di perdita della capacità di autodeterminazione, vuole essere sottoposta o meno a trattamenti che ne prolunghino la vita.
Pochissimi in realtà lo fanno, anche perché il tema è tuttora molto difficile da affrontare. Lo racconta anche chi ha scelto di lavorare accanto a persone che hanno malattie in fase terminale: sul fine vita e sulle cure palliative resiste tuttora un grande tabù culturale. Per questo è importante parlarne. Esistono realtà che si adoperano per cercare di rendere più dignitosi gli ultimi mesi di vita delle persone. A Melegnano, un paesino di appena 20mila abitanti in provincia di Milano, è stata per esempio creata una struttura – composta da medici, infermieri, psicologi e volontari – che si occupa di cure palliative a domicilio. Laddove non si può più curare, spiega il dottor Chiesa che guida l’équipe, è importante garantire sostegno e assistenza tanto al malato quanto alla sua famiglia. Perché davanti a condizioni terminali è anche tutto il sistema familiare che spesso crolla. Figli, mariti, mogli, nipoti vengono travolti da un qualcosa che è ancor più devastante se affrontato in solitudine e diventa fondamentale poter chiedere aiuto.
Perché anche laddove non si può curare, è possibile garantire dignità al malato in primis e anche a tutti coloro che gli stanno accanto. Anche se fa paura, anche se voltarsi dall’altra parte è umanamente più facile e forse più comprensibile, affrontare il dolore appoggiandosi all’aiuto di qualcuno può renderlo meno devastante.
di Annalisa Grandi
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Tag: Italia
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