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Gorbaciov

Quella primavera interrotta di Gorbaciov

Era il marzo del 1985 quando Gorbaciov pronunciò per la prima volta la parola perestroika. Guardando ad oggi, sembra una vita fa
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Quella primavera interrotta di Gorbaciov

Era il marzo del 1985 quando Gorbaciov pronunciò per la prima volta la parola perestroika. Guardando ad oggi, sembra una vita fa
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Quella primavera interrotta di Gorbaciov

Era il marzo del 1985 quando Gorbaciov pronunciò per la prima volta la parola perestroika. Guardando ad oggi, sembra una vita fa
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Era il marzo del 1985 quando Gorbaciov pronunciò per la prima volta la parola perestroika. Guardando ad oggi, sembra una vita fa
Quella parola – perestroika – Michail Gorbaciov cominciò a pronunciarla poco dopo la sua salita al soglio di pontifex maximus sovietico, alias di segretario generale del Partito comunista. Era il marzo del 1985. Tre anni dopo, esattamente il 29 aprile, la parola perestroika Gorby – per dirla come l’avevano occidentalizzato i nostri giornali – l’avrebbe ufficializzata con un discorso che declinava anche un altro termine magico: glasnost. Dall’indomani sarebbe quindi iniziata la fine di un granitico impianto politico che con mausoleica tradizione era passato dalle mani di Stalin alle scarpe di Krusciov e ai baci in bocca di Brežnev. Una crepa destinata ad allargarsi velocemente, fino alla dissoluzione dell’impero moscovita. Una colpa che i russi duri e puri non gli perdonarono e non gli perdonano tuttora, nonostante a sostituire Gorby dopo le sue – inevitabili – dimissioni conseguenti al disastro in Lituania, fosse stato l’imbarazzante Eltsin. Una damnatio memoriae speculare a quella depositata nella storia di quei Paesi – Lituania in testa, non a caso – che dopo essere stati incoraggiati nel loro sogno d’indipendenza erano stati bombardati proprio dal papà della perestroika. Una ignominia derivante dalla doppia colpa d’aver dissolto l’impero senza riconoscere l’indipendenza ai “satelliti”. Una dannazione capace di cancellare il merito degli accordi sullo smantellamento dei missili nucleari a medio raggio in Europa: di fatto, l’inizio della fine di quella Guerra fredda ora riattizzata dal Grizzly del Cremlino. La memoria post sovietica ha insomma demolito l’immagine di chi aveva, se non aperto, socchiuso le finestre alla primavera russa. Quei fiori di libertà destinati ad appassire con un loop quale quello attuale, che vede un ex oscuro scherano del Kgb volersi rapportare non alla mummia di Lenin ma al sarcofago di Pietro il Grande. Un delirio che non trova tuttavia nuovi Jan Palach (pretestuosamente omaggiato nel nostro 25 aprile) pronti a immolarsi per condannare un regime che prevede la galera anche per chi pronuncia la parola “guerra” relativamente all’Ucraina, cioè alla sua aggressione. Con tutti i suoi errori Gorbaciov è lontano le famose mille miglia da un personaggio quale Putin, destinato a essere scaraventato nei libri di storia al pari dei peggiori figuri del Novecento. Sulla sua lapide, coerentemente con un pensiero occidentale, Gorby ha voluto la scritta “We tried” (Ci abbiamo provato). È vero, ci provò. E chissà se fra i fallimenti va compresa anche la (irricevibile per i russi) battaglia contro il consumo della vodka. Una battaglia che provocò pure un disastro finanziario in una economia già al collasso. Vodka il cui consumo fu prontamente ripristinato e rinvigorito dal suo successore: quel Boris Eltsin che in televisione ebbe modo di mostrarne il gradimento all’intero globo terracqueo. di Pino Casamassima

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