Scuola, tornare al futuro
In Italia a essere analogici non sono solo le classi e gli strumenti scolastici, ma l’approccio, il modo in cui troppe volte ci si rivolge agli alunni
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Scuola, tornare al futuro
In Italia a essere analogici non sono solo le classi e gli strumenti scolastici, ma l’approccio, il modo in cui troppe volte ci si rivolge agli alunni
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Scuola, tornare al futuro
In Italia a essere analogici non sono solo le classi e gli strumenti scolastici, ma l’approccio, il modo in cui troppe volte ci si rivolge agli alunni
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In Italia a essere analogici non sono solo le classi e gli strumenti scolastici, ma l’approccio, il modo in cui troppe volte ci si rivolge agli alunni
Cosa significa per i nostri figli entrare in classe, a scuola, al mattino? Questa è la domanda che dovremmo farci, prima di qualsiasi riflessione sul ruolo dell’istituzione scolastica, sulla qualità dell’insegnamento, dei professori e anche sulla capacità di apprendimento dei nostri ragazzi. Qual è l’ambiente, l’atmosfera che – fatte salve le splendide eccezioni, neppure così rare – accoglie gli alunni? Mi ricordo quando ne facevo argomento di battute in radio o in precedenti occasioni di confronti-social: è come la DeLorean di “Ritorno al Futuro”. Un ragazzo del III millennio, abituato alla sua realtà profondamente digitale – il che non è e non potrà mai essere un giudizio di merito, ma solo una considerazione persino banale – si ritrova in un contesto molto più familiare ai propri genitori che a lui stesso.
Qui non stiamo parlando di strumenti o almeno non solo di quelli. Non sarà una Lim a rendere aggiornata e al passo con i tempi una classe e ancor meno renderà un insegnamento affascinante e talvolta persino comprensibile alle abitudini e al linguaggio dei nostri figli. A essere analogici non sono solo le classi e le apparecchiature – altro discorso è quello relativo all’edilizia scolastica, uno scandalo di questo Paese – ma l’approccio, il modo in cui troppe volte ci si rivolge ad alunni che hanno la sgradevole sensazione di essere tirati per i capelli verso il passato. La cosa paradossale è che questo non accade tanto sui sacri principi dell’educazione e dei valori, sui quali anzi troppo spesso deroghiamo a scuola con la fortissima complicità dei genitori, ma in un approccio all’approfondimento, alla cultura, in definitiva alla vita che sia degno dei nostri tempi. Sfruttando intelligentemente gli smartphone che i nostri figli hanno in tasca (invece di cercare ridicolmente di proibirli spingendoli a qualsiasi trucco pur di usarli per chattare, cazzeggiare e far passare il tempo delle lezioni), pensate quello che potrebbe fare oggi il professore dell’”Attimo fuggente”. Cosa potrebbe mai diventare una sua lezione, grazie agli strumenti a disposizione. La differenza la fa chi sta alla cattedra e in mezzo ai ragazzi, non l’iPhone.
Insegnare non è un obbligo. Se non si ha voglia e capacità di aggiornarsi, non si ha alcuna possibilità di far bene il proprio lavoro. Penso ai tantissimi prof che meriterebbero di essere pagati molto di più e penso che solo una loro valutazione oggettiva possa essere il primo passo. Non quelle cose ridicole in branco che siamo sempre bravi a partorire in Italia.
Lo so, sono proposte indigeribili per i profeti del finto egualitarismo, ma guardiamo un po’ dove costoro hanno spinto la scuola: a uno stato catatonico e fuori dal nostro tempo, aggrappati alla buona volontà di singoli insegnanti poco pagati e ancor meno considerati.
Di Fulvio Giuliani
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