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La mascherina che smaschera

L’uso corretto della mascherina è la manifestazione di come un semplice gesto possa influire positivamente sul benessere dell’intera collettività. Eppure non tutti la pensano così.
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La mascherina che smaschera

L’uso corretto della mascherina è la manifestazione di come un semplice gesto possa influire positivamente sul benessere dell’intera collettività. Eppure non tutti la pensano così.
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La mascherina che smaschera

L’uso corretto della mascherina è la manifestazione di come un semplice gesto possa influire positivamente sul benessere dell’intera collettività. Eppure non tutti la pensano così.
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L’uso corretto della mascherina è la manifestazione di come un semplice gesto possa influire positivamente sul benessere dell’intera collettività. Eppure non tutti la pensano così.
Negli ultimi due anni molti di noi hanno dovuto rinunciare a impegni sociali perché in tanti hanno scelto di non usare correttamente la mascherina. Questa esperienza mi ha indotto a riflettere. Le persone non la indossano perché hanno una percezione del problema diversa da chi ha legittime ragioni per proteggere sé stesso e gli altri. Se poi la maggioranza accetta la situazione, che cosa può fare il singolo? Chiudersi in casa e non avere più alcun contatto? Se la norma detta delle regole per il bene comune l’interpretazione che le persone ne fanno è spesso soggettiva. Il virus non cessa di esistere neanche quando si adottano comportamenti superiori o che eludono la situazione. Fare finta di niente non serve e tanto meno si può chiedere a un fragile di aderire a un comportamento di gruppo che ha un costo così alto. Si mette tutto sulle sue spalle. Non è raro sentir dire che la mascherina sia scomoda e faccia sudare, e sentire chiedere se si possa essere più elastici, tolleranti, senza pensare a cosa per queste persone significherebbe ammalarsi. Non è questo un comportamento egocentrato? Io credo che per uscirne siano utili un comportamento comunitario, l’aiuto e la collaborazione di tutti. Se la cultura non insegna a capire che c’è anche l’altro, a cosa serve? Riconoscere le differenze consente di affrontarle in modo appropriato. È come se il fare finta di nulla fosse diventata la norma, tollerata dalla maggioranza. Così le voci di protesta si spengono e si trasformano in muta assenza, con il beneplacito degli altri. Con un semplice «Mi dispiace, che peccato che tu non venga» ci si mette a posto la coscienza con chi deve rinunciare e si corre nel luogo d’incontro pensando «Che esagerazione!». Peccato che la fragilità sia un elemento umano e possa riguardare tutti. La vera rivoluzione credo debba partire dalla vita del singolo. Si vorrebbe abitare in un mondo più umano e ospitale dove la comunicazione e l’inclusione siano presenti a cominciare dai luoghi in cui la parola ha valore. Rimanere insieme mi sembra una buona prospettiva, anche se è luogo comune pensare che lo sforzo lo debba fare sempre il prossimo e mai noi. A sostegno delle persone fragili si può intervenire in prima persona, nella vita di tutti i giorni, indossando correttamente i dispositivi in modo da permettere loro la socialità. Questo sarebbe, a mio parere, il comportamento giusto per una società evoluta, un aiuto vero e concreto. Sostenere tutti perché nessuno sia solo. Nei momenti di crisi l’uomo dovrebbe sentirsi parte di una comunità. Rimodulare il comportamento è un impegno, una responsabilità che coinvolge tutti. No, non basta più la frase «Mi dispiace che tu non ci sia», bisogna cominciare a cambiare i comportamenti, cercare un terreno condiviso, correggere la nostra condotta per accogliere nuovi membri in un gruppo sociale. Trasformare un comportamento significa coltivare nuove visioni. L’esclusione è sempre una perdita. Non indossare la mascherina o fare finta di portarla, lasciando il naso scoperto, si tramuta in un atteggiamento di esclusione. Spesso si adduce come scusa l’essere vaccinati. Oggi l’egoismo è diventato quasi una ‘forma d’arte’: un atteggiamento che certamente rende meno abitabile il mondo.   di Diletta Morgan

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