Velasco, la cittadinanza e le ipocrisie dolorose
Julio Velasco ha preso di petto la questione della cittadinanza italiana dei figli di stranieri nati o cresciuti da noi ed è stato lapidario
Velasco, la cittadinanza e le ipocrisie dolorose
Julio Velasco ha preso di petto la questione della cittadinanza italiana dei figli di stranieri nati o cresciuti da noi ed è stato lapidario
Velasco, la cittadinanza e le ipocrisie dolorose
Julio Velasco ha preso di petto la questione della cittadinanza italiana dei figli di stranieri nati o cresciuti da noi ed è stato lapidario
Julio Velasco ha preso di petto la questione della cittadinanza italiana dei figli di stranieri nati o cresciuti da noi ed è stato lapidario
Partiamo dalla notizia più importante: Julio Velasco – il maestro – sarà il Commissario tecnico della Nazionale femminile di pallavolo medaglia d’oro alle Olimpiadi di Parigi ancora per quattro anni. Velasco e le azzurre, dunque, cercheranno di aprire un vero e proprio ciclo, puntando ai prossimi Giochi di Los Angeles 2028.
Milioni di italiani che si sono emozionati profondamente la scorsa estate non potranno che essere felici di seguire ancora partite di livello altissimo e soprattutto di ascoltare parole che riportano un’impostazione agonistica che va da trent’anni ben oltre il rettangolo di gioco.
Julio Velasco ha confermato queste caratteristiche pressoché uniche prendendo di petto la questione della cittadinanza italiana dei figli di stranieri nati o cresciuti da noi, è stato lapidario: “A me sembra assurdo che io, grazie a mio nonno Schiaffino arrivato in Argentina a dieci anni, avrei potuto prendere la cittadinanza senza aver mai visitato l’Italia e parlato l’italiano. Invece non lo possono fare ragazzi e ragazze nati in Italia. Questa è un’idea vecchia di nazione e non di Paese che secondo me è assolutamente superata. Però sono bandiere politiche che si usano invece di prendere nota della realtà. Lo sport riflette una seconda ingiustizia: quando conviene, i figli di migranti diventano italiani. È quando non conviene che non diventano italiani. Quando sono semplici figli di migranti devono aspettare dieci anni“.
Quest’ultimo tema non è certo una questione italiana e tantomeno la scopriamo nel III millennio: rilievi analoghi risalgono agli anni ‘50 e ‘60 e persino a prima della seconda guerra mondiale negli Stati Uniti. Eroi in pista, pedana o campi da gioco, ma pur sempre “negri“ per la società e la politica Usa.
È bene ricordare che Jesse Owens, l’uomo delle quattro medaglie d’oro alle Olimpiadi di Berlino 1936, vinte in faccia ad Adolf Hitler, non fu mai ricevuto da un uomo del calibro di Franklin Delano Roosevelt alla Casa Bianca e tornato dalla capitale tedesca dovette entrare da una porta di servizio di un hotel di New York. Non dell’Alabama più profonda.
Julio Velasco ha sollevato un tema che in un Paese maturo non dovrebbe mai ridursi a questione di partito, bandiera o volgare ideologia d’accatto. Sulle ridicole corsie preferenziali per argentini e brasiliani ci siamo espressi sulle pagine de La Ragione mesi fa e trovare eco nelle parole di un uomo come Julio Velasco è motivo di orgoglio.
Abbiamo ricordato che si sta parlando, anche rispetto alle proposte più “progressiste“, di pochi anni di differenza rispetto alle regole attuali, quindi è solo una questione puramente ideologica.
Basterebbe voler affrontare il tema con onestà intellettuale, privilegiando la scelta di essere italiani, di crescere come italiani, di gareggiare da italiani, di vivere l’Italia piuttosto che remote ascendenze o meccanismi esclusivamente burocratici.
Superfluo aggiungere che non ci crediamo neanche un po’.
di Fulvio Giuliani
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