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Il peacekeeper Angeli: influenza del Papa difficoltosa nella guerra ucraina

Intervista all’osservatore internazionale Andrea Angeli,  scettico sulla possibilità di imminenti negoziati risolutivi della guerra in Ucraina. Secondo lui nemmeno il Papa, a differenza del passato, potrà avere grandi margini di influenza che accelerino il processo di pace. Le ragioni  ricordano quanto già visto nei Balcani
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Il peacekeeper Angeli: influenza del Papa difficoltosa nella guerra ucraina

Intervista all’osservatore internazionale Andrea Angeli,  scettico sulla possibilità di imminenti negoziati risolutivi della guerra in Ucraina. Secondo lui nemmeno il Papa, a differenza del passato, potrà avere grandi margini di influenza che accelerino il processo di pace. Le ragioni  ricordano quanto già visto nei Balcani
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Il peacekeeper Angeli: influenza del Papa difficoltosa nella guerra ucraina

Intervista all’osservatore internazionale Andrea Angeli,  scettico sulla possibilità di imminenti negoziati risolutivi della guerra in Ucraina. Secondo lui nemmeno il Papa, a differenza del passato, potrà avere grandi margini di influenza che accelerino il processo di pace. Le ragioni  ricordano quanto già visto nei Balcani
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Intervista all’osservatore internazionale Andrea Angeli,  scettico sulla possibilità di imminenti negoziati risolutivi della guerra in Ucraina. Secondo lui nemmeno il Papa, a differenza del passato, potrà avere grandi margini di influenza che accelerino il processo di pace. Le ragioni  ricordano quanto già visto nei Balcani
Andrea Angeli è un funzionario internazionale che sotto le bandiere Onu, Nato e non solo ha vissuto sul terreno le principali crisi degli ultimi 35 anni: la guerra nei Balcani, l’Iraq, l’Afghanistan solo per citarne alcune; è anche autore di numerosi libri, tra cui “Professione Peacekeeper. Da Sarajevo a Nassiriyah, storie in prima linea” e “Senza Pace. Da Nassiriyah a Kabul, storie in prima linea” con prefazione, rispettivamente, di Gianni Riotta ed Enrico Mentana.    Angeli cosa prova  guardando i tragici fatti ucrainii? Sconcerto e profonda delusione nel vedere che tutto quello che in termini di relazioni Russia-Occidente era stato costruito negli scorsi anni è crollato come un castello di carte.   Non esageriamo, i rapporti – quantomeno tra le due superpotenze – non sono stati mai buoni. E invece no, forse non tutti ricordano le proficue relazioni tra truppe Nato ed ex sovietiche che si sono sviluppate a partire dalla metà del ’90 prima in Bosnia e poi in Kosovo   Ci rinfreschi la memoria A seguito degli accordi di Dayton l’Alleanza atlantica, o forse il plenipotenziario Usa Holbrooke artefice degli stessi, riuscì ad imbarcare una brigata di Mosca all’interno del neonato contingente Ifor (Implementation force). Operazione ripetuta in Kosovo nel ’99 con un ampio impegno insieme ai soldati Kfor (Kosovo force). Un piccolo-gande capolavoro diplomatico, ma anche il frutto di una politica coraggiosa e innovativa della Nato guidata in quegli anni dall’ex ministro spagnolo Solana e dall’ambasciatore italiano Balanzino.   E come andò? Come meglio forse non poteva, quantomeno in Bosnia. Ma anche in Kosovo, al di là del “sorpasso” in fase di dispiegamento – i russi bruciarono i tempi prendendo il controllo dell’aeroporto di Pristina – non si registrarono grandi screzi, sebbene le agende in entrambe le missioni non fossero proprio coincidenti per la nota vicinanza di Mosca alle comunità serbe.   Lei che ricordo ha? Guardi, nel dopoguerra bosniaco io ero stazionato con l’Onu a Tuzla, insieme al contingente Nato americano; i 1500 russi del colonnello Ivanovich-Lenstov acquartierati a poca distanza, nella base di Ugljevik, operarono in grande armonia con gli altri contingenti, a partire da quello Usa. All’aeroporto di Pristina per tre anni alcune centinaia di aviatori italiani – inizialmente guidati dall’attuale no.1 AM generale Goretti – responsabili dello spazio aereo hanno convissuto con altrettanti russi in controllo della pista e area cirrcostante.   Poi cosa accadde? Qualcosa cambiò dopo l’elezione di Putin alla presidenza della Federazione, nel giro di pochi mesi entrambi i contingenti vennero ritirati. Si pensò a un normale ritiro, come spesso accade – le missioni costano – invece probabilmente era l’inizio di una virata nelle relazioni e non ce ne siamo accorti. Ricordo bene quanto disse il presidente Clinton a consuntivo di quell’impegno “per tutti i quattro anni l’accordo ha funzionato”, gli fece eco l’allora generale comandante italiano della Kfor Fabio Mini sottolineando quanto “i russi abbiano contribuito giorno dopo giorno alla nostra comune missione”. Insomma: la guerra fredda sembrava un lontano ricordo, una nuova stagione stava consolidandosi, ma non è stato così.   Venendo ai giorni nostri, vede uno spazio negoziale? Arrivati a questo punto è difficile essere ottimisti. Forse ad ovest ci si è mossi un po’ troppo in ordine sparso, ma non è detto che il risultato sarebbe stato diverso.   E la mediazione papale? La diplomazia pontificia di miracoli in passato ne ha fatti, basta citare la crisi di Cuba del ’62 o la mediazione del cardinal Samorè e del nunzio Sodano nella disputa del canale di Beagle – si era a un passo dalla guerra tra Cile e Argentina -, ma qui è diverso.   Ovvero? L’esperienza dei conflitti balcanici insegna che la presenza di ortodossi tra le parti in causa rende problematico l’intervento di un’autorità cattolica, anche ai massimi livelli. Giovanni Paolo II si spese molto, in prima persona e attraverso il cardinal Etchegaray, per la cessazione delle ostilità in Bosnia ma le molte iniziative segnarono il passo, tant’è che la visita a Sarajevo programmata nel settembre ’94 fu fatta slittare dai serbo-bosniaci (ortodossi) all’aprile ’97, un anno e mezzo dopo la fine della guerra. E in Ucraina è ancora più complesso.   Perchè? Per le forti divisioni tra gli stessi ortodossi: alcuni seguono la chiesa ucraina, mentre i più sono – o quantomeno erano – fedeli al patriarcato di Mosca. Forse l’unico che teoricamente avrebbe potuto svolgere un ruolo è il patriarca Kirill ma quest’ultimo ha fatto subito una chiara scelta di campo.   Guardiamo avanti, che accadrà nel dopoguerra? Giusto pensarci, anzi sono certo che nelle capitali si stiano già ipotizzando futuri scenari, certamente non facili, per non trovarsi  impreparati. I seicento osservatori Osce che hanno operato in tutto il territorio ucraino dal 2014 fino al febbraio scorso sono un capitale umano che potrà tornare utile in quella fase. Ma ogni eventuale missione di stabilizzazione dell’organismo paneuropeo di Vienna (o anche Onu) potrà aver luogo solo con il consenso russo e quindi con un mandato frutto di significativi compromessi, anche se sarà interesse di Mosca a mantenere buoni rapporti con l’Osce. Viceversa, il dispiegamento di un corpo di spedizione Nato o Ue, come pure quello di una “coalizione di volenterosi” – come in Iraq – potrebbe teoricamente partire subito, ma  con un raggio d’azione limitato e comunque non sarebbe esente da rischi. Ma molto dipenderà da come e quando finirà il conflitto.   Di Ilaria Cuzzolin

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