L’incontro con il campione di Tokyo 2020. L’intervista a Marcell Jacobs, medaglia d’oro nei 100 metri piani e nella staffetta 4×100 metri.
«La mattina della finale mi sono svegliato alle cinque, pregando che fossero già le otto. Il tempo non passava mai, anche perché non mi sono adattato fino in fondo al fuso orario di Tokyo. Mi giravo e rigiravo, chiedendomi come potessi arrivare alle otto del mattino e poi alle 19. L’ora della finale». Marcell Jacobs, campione olimpico dei 100 metri a Tokyo 2020, ha raccontato così l’inizio della giornata che lo ha consegnato alla leggenda.
Lo abbiamo incontrato alla Mostra del cinema di Venezia, dove è stato accolto come il grande personaggio della serata dedicata a Ben Affleck e Jennifer Lopez. Tanto per far capire cosa significhi vincere i 100 metri alle Olimpiadi. «Non ho ancora compreso del tutto – confessa Marcell – che cosa sia accaduto. La dimensione dell’impresa riesce a darmela la gente, soprattutto chi mi ferma per dirmi solo “Grazie” e “Sono orgoglioso di te”. È una sensazione bellissima, che ripaga di anni di sacrifici, fatica e anche tante sconfitte».
Nello spazio della Fondazione Ente dello spettacolo – che ha ospitato gli eventi de “La Ragione” a Venezia, in collaborazione con l’agenzia Joydis – Marcell Jacobs ha portato il sapore della storia. Perché i 100 metri resteranno per sempre la ‘gara delle gare’. L’emblema stesso delle Olimpiadi.
Del resto, la corsa è il gesto più naturale e primordiale che esista: tutti corriamo o abbiamo corso nella vita. Parafrasando Borges, ogni volta che un bambino fa uno scatto, ricomincia la storia dello sport. «È proprio così» commenta Jacobs. «Correre è gioia, naturalezza, istinto puro. Io mi diverto a correre, sto bene in quei 100 metri e dò un senso all’enorme fatica che voglio fare per poter essere ciò che sono e confermarmi. La fatica degli allenamenti mi fa tornare a casa soddisfatto della giornata, mi permette di star bene con me stesso. Eppure – sottolinea – nulla avrebbe senso senza poter provare la gioia pura della corsa. Il trionfo di Tokyo è il frutto di una programmazione che ha coinvolto tutto il mio team, la Federazione e il gruppo sportivo delle Fiamme Oro. Raggiungere un obiettivo non può avere nulla di casuale e noi volevamo la finale. Nulla di meno, ma io sentivo di valere una medaglia».
Quello di Marcell è un grande insegnamento, ben oltre i confini della pista. Vale per l’Italia: non esistono scorciatoie ma solo applicazione, serietà, professionalità, rispetto della fatica ma anche una sanissima voglia di godersi ciò che si è scelto nella vita. Marcell Jacobs è un ragazzo profondo e consapevole della responsabilità piovutagli addosso.
Eppure, quando abbiamo ricordato che il suo nome è nello stesso albo d’oro di Jesse Owens, Carl Lewis e Usain Bolt, lo abbiamo visto tirare il fiato per un attimo. Un’ombra di consapevolezza negli occhi, davanti a nomi che danno i brividi solo a essere pronunciati.
Di Carl Lewis, il ‘figlio del vento’, Marcell Jacobs aveva il poster in cameretta.La fotografia di una famosa pubblicità dell’epoca, in cui il fenomenale sprinter statunitense indossava dei tacchi a spillo e il claim recitava: “La potenza è nulla senza controllo”. «Ripensandoci – dice dopo una piccola pausa, per definire il concetto – quella pubblicità ha indicato la strada: è la testa che mi ha permesso di arrivare dove sono arrivato. La testa si allena e si gestisce. Essermi affidato a una mental coach mi ha cambiato».
Ricorda: «La mattina delle semifinali e della finale le ho telefonato e abbiamo parlato a lungo, perché mi sentivo schiacciato dall’attesa che in Italia stava montando su di me. Lei è stata ferma e semplice, mi ha detto solo di godermela. Così, quando mi sono messo sui blocchi della finale e ho guardato quei 100 metri, ero l’uomo più sereno della terra. Mi sono detto solo una cosa: divertiti e vinci». Un altro retroscena di quel giorno memorabile è l’in bocca al lupo di Marcell ai suoi sette avversari. «Li ho spiazzati nel momento in cui normalmente gli atleti non si guardano neppure in faccia. Con quel saluto, forse, ho cominciato a vincere la mia medaglia d’oro».
Nel salutare il campione di Tokyo 2020, gli abbiamo ricordato come sullo stesso palco di Venezia sabato scorso avessimo incontrato un campione di Roma ‘60, Eraldo Pizzo. 61 anni dopo, il più forte giocatore di pallanuoto di ogni epoca non riesce ancora a trattenere l’emozione, nel ricordare quella lontana notte romana.
Questa è l’eredità profonda e duratura dell’alloro olimpico: si diventa parte della memoria di ognuno. Di quell’angolo intimo, abitato dalle emozioni del bambino che continuerà per sempre a correre.
di Fulvio Giuliani
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