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Guai a dire grasso

Uno degli aspetti più sconcertanti del politicamente corretto è che spesso gli aspiranti riformatori della lingua non sono d’accordo fra loro. Ed ecco che anche un aggettivo un tempo innocente come “grasso” suscita discussioni
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Guai a dire grasso

Uno degli aspetti più sconcertanti del politicamente corretto è che spesso gli aspiranti riformatori della lingua non sono d’accordo fra loro. Ed ecco che anche un aggettivo un tempo innocente come “grasso” suscita discussioni
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Guai a dire grasso

Uno degli aspetti più sconcertanti del politicamente corretto è che spesso gli aspiranti riformatori della lingua non sono d’accordo fra loro. Ed ecco che anche un aggettivo un tempo innocente come “grasso” suscita discussioni
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Uno degli aspetti più sconcertanti del politicamente corretto è che spesso gli aspiranti riformatori della lingua non sono d’accordo fra loro. Ed ecco che anche un aggettivo un tempo innocente come “grasso” suscita discussioni

Uno degli aspetti più sconcertanti del politicamente corretto è che spesso gli aspiranti riformatori della lingua non sono d’accordo fra loro e per di più cambiano idea nel tempo. È già successo con la parola “cieco”, un tempo squalificatissima e sostituita con “non vedente”, ma ora riabilitata perché, a differenza di quest’ultima, indicherebbe una caratteristica della persona anziché una mancanza, un difetto, un’assenza, una negatività, come è automatico se si usa il “non”. Lo stesso per “disabile”, che andrebbe sostituito con “persona con una disabilità”. Eccetera eccetera.

Così può succedere che negli anni Settanta io possa dire tranquillamente cieco; negli anni Novanta venga sgridato e rieducato a dire non vedente; negli anni Duemila venga rimbrottato perché sì, ho imparato a dire “non vedente” ma non mi sono accorto che, nel frattempo, i molestatori della lingua hanno cambiato le regole e preferiscono tornare a cieco. Né si pensi che la loro invadenza riguardi solo le parole che designano disabilità fisiche o mentali.

Anche un aggettivo un tempo innocente come “grasso” suscita discussioni. E la condizione esistenziale di essere grassi è addirittura oggetto di libri, riviste accademiche, ricerche, studi (i cosiddetti Fat Studies). Come chiamare le persone grasse senza offenderle? Qual è il modo politicamente corretto di parlarne? Neppure su questo c’è accordo fra gli aspiranti riformatori della lingua. Già una dozzina di anni fa “The Times” passava in rassegna 50 modi di dire “sei grasso”: fra quelli accettabili o addirittura politicamente corretti suggeriva “prosperoso”, “orizzontalmente svantaggiato”, “mangiatore entusiasta”. Oggi il sito inglese di supporto grammaticale “Grammarhow” consiglia 12 soluzioni, con netta preferenza per curvy (formosa) per le donne e jolly (gioioso, letteralmente) per gli uomini. Ma, ahimè, conclude con la solita raccomandazione: prima di usare curvy e jolly nei confronti di qualcuno, assicurati che a quel qualcuno piaccia essere descritto con quel termine. Come se andare da una donna e dirle «Posso chiamarti curvy?» fosse un gesto gentile…

I veri problemi, però, sorgono in ambito medico. Alcuni considerano offensivi i termini “obeso” o “sovrappeso” (perché mai?) ma sono incerti su come sostituirli. Uno studio condotto una decina di anni fa dalla Yale School of Medicine concludeva che il termine meno sgradito dai pazienti fosse unhealthy weight (peso non salutare) e che un paziente su cinque fosse intenzionato a cambiare medico nel caso si fosse sentito stigmatizzato per il proprio peso.

Da decenni esiste un movimento per l’accettazione della condizione di essere grassi, che organizza manifestazioni e fat pride. Ma, negli ultimi tempi, sempre più di frequente accade che la condizione di essere grassi sia addirittura esaltata dai fan degli artisti e delle artiste grasse («Sei bellissima») al punto che, per alcuni, essere grassi diventa motivo di orgoglio. Di qui un dilemma irrisolvibile per medici, dietologi, nutrizionisti: dire ai propri pazienti la verità (essere sovrappeso è dannoso per la salute), con il rischio di essere accusati di fat shaming o body shaming, oppure minimizzare il problema per non perdere pazienti?

di Luca Ricolfi

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