Un accordo per il bene dell’Italia
Le decisioni dei partiti politici italiani nei confronti della Russia non riguardano solo la “politica estera” ma la posizione dell’Italia nel mondo.
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Un accordo per il bene dell’Italia
Le decisioni dei partiti politici italiani nei confronti della Russia non riguardano solo la “politica estera” ma la posizione dell’Italia nel mondo.
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Un accordo per il bene dell’Italia
Le decisioni dei partiti politici italiani nei confronti della Russia non riguardano solo la “politica estera” ma la posizione dell’Italia nel mondo.
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Le decisioni dei partiti politici italiani nei confronti della Russia non riguardano solo la “politica estera” ma la posizione dell’Italia nel mondo.
Il punto non è quello di intestarsi patenti di verginità politica, che praticamente nessuno – pur con eccezioni che non mancheremo di sottolineare – può vantare nei confronti della Russia di Vladimir Putin. Che fra i partiti e anche all’interno degli stessi ci siano differenze, a volte abissali, è altrettanto pacifico.
Far finta di nulla, insomma, non si può. Considerazione che avrebbe dovuto spingere da mesi Matteo Salvini a una presa di distanza non tanto dalla persona dello zar, ma da un’idea del ruolo dell’Italia nel mondo che smentisce la nostra storia repubblicana. Un allontanarsi da ambiguità che dovrebbe essere più che naturale per l’atlantista Silvio Berlusconi, uomo che si vantava anni fa, con Pratica di Mare, di aver avvicinato Mosca e Washington e scongiurato nuove guerre fredde. Il grado di confidenza personale con Putin ha ovviamente un suo rilievo, ma davanti a un crimine conclamato come la guerra di aggressione all’Ucraina finisce paradossalmente per perdere di significato. Condannare il leader russo e le sue scelte è il minimo sindacale. È facile (almeno dovrebbe). Altro è convincere l’elettore su quale rapporto, una volta tornati al governo, avrebbero con i regimi illiberali e – di converso – con l’Ue e l’Occidente. Cosa che, oltretutto, converrebbe a entrambi, per evitare di consegnare la patente di atlantista alla terza e per loro molto incomoda leader della coalizione, Giorgia Meloni. Quest’ultima, che pur non ha sbagliato una dichiarazione, avrebbe potuto semplicemente star ferma e zitta e incassare i dividendi delle ambiguità e difficoltà altrui.
Quanto al centrosinistra, sarebbe un esercizio ridicolo provare a limitare gli ammiccamenti verso Mosca a un passato con cui in molti hanno rifiutato e rifiutano tuttora di fare i conti. È il presente che ci interessa e nel presente il leader del Pd Enrico Letta ha imbarcato formazioni che hanno appena votato contro l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato. Una posizione gravemente incompatibile con gli interessi geostrategici dell’Italia.
Passando al M5S e a Giuseppe Conte, parliamo del presidente del Consiglio della ‘Via della seta’ e dei continui ammiccamenti alle ‘democrature’, durante la scombussolata stagione populista che l’Italia ha vissuto appena l’altro ieri. Quando un altro degli alleati del Pd, Luigi Di Maio, inneggiava a posizioni che oggi farebbero felici Xi, Putin e anche il suo imbarazzante scherano Medvedev. Da ministro degli Esteri, però, Di Maio ha compiuto la traversata del deserto e soprattutto ammesso i propri errori. Altri non hanno ancora avuto questa voglia o capacità.
Come evidente, non è necessario rimpallarsi accuse sui rispettivi ingombranti passati, per lasciare l’elettore del 25 settembre privo di punti di riferimento. Qui non si tratta solo di “politica estera”, ma dell’Italia nel mondo, del nostro futuro politico ed economico e anche morale.
Come accennavamo in apertura, le eccezioni non mancano, a cominciare dal sedicente terzo polo (che i sondaggi a onor del vero danno come quarto e pure staccato). Carlo Calenda e Matteo Renzi non hanno mai appoggiato alcuna delle scelte tipiche dei regimi così in voga da un po’ di tempo, ma errori e sbandamenti sono inevitabili e potranno sempre essere rinfacciati. Si pensi a Renzi e ai sauditi.
Ecco perché, come abbiamo scritto e non ci stancheremo di ripetere, sui grandi e fondamentali temi che definiranno il futuro del Paese sarebbe utilissimo e auspicabile un minimo accordo comune. Pochi, ma fondamentali punti su cui convergere, prescindendo da qualsiasi impostazione ideologica, rivalità di partito o personale.
In una democrazia matura, una simile presa d’atto e di responsabilità garantisce stabilità e credibilità. Chi dovesse chiamarsi fuori, sarebbe fuori anche dalla possibilità di ricoprire cariche di governo. Nulla di trascendentale, è la storia di decenni di politica inglese, francese, dell’allora Germania occidentale e degli stessi Stati Uniti d’America. Non a caso, il fatto che negli Usa sia recentemente venuto meno questo patto fra opposti schieramenti ha gravemente intaccato l’equilibrio e la credibilità della democrazia americana.
Di Fulvio Giuliani
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