Allarme diagnosi tardive, ‘fino a 10 anni con Hiv senza saperlo’
Milano, 30 nov. (Adnkronos Salute) – I dati sulle nuove diagnosi di Hiv in calo sono fonte di gioia e timori per gli esperti. Con una certezza: “Che c’è ancora tantissimo da fare” sulla strada verso l’obiettivo di eliminare l’Aids dalla faccia della terra. “Un po’ di preoccupazione i dati italiani”, che sono in linea anche con quelli Ue, “ce la danno – spiega all’Adnkronos Salute Andrea Gori, direttore dell’Unità operativa di Malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano e presidente di Anlaids Lombardia – Sono dati che evidenziano una netta e importantissima riduzione di casi, però con qualche anomalia. Suggeriscono infatti che molto spesso non siamo in grado di arrivare a una diagnosi precoce, che arriviamo intercettare le persone colpite dal virus dopo 10 anni che sono infette. Così non si spezza la catena del contagio. Una persona che contrae l’Hiv oggi, se non trattata, è contagiosa. Se non sa di essere sieropositiva e lo scopre alla malattia, poiché la malattia in media si presenta dopo 10 anni, vuol dire che ha avuto 10 anni di tempo in cui ha potuto infettare gli altri”.
Per lo specialista le riflessioni da fare sono due: inquadrare bene l”effetto Covid’ e approfondire un sospetto preciso. “Il sospetto è che manchino” all’appello “le diagnosi precoci” e che “di fatto noi vediamo solo la punta terminale dell’iceberg, cioè solo i malati”. Leggendo l’ultimo rapporto sull’andamento dell’infezione, emerge che “noi abbiamo un numero più o meno stabile di persone che sono state diagnosticate molto tardivamente e che hanno avuto tutto il tempo per trasmettere l’infezione nella popolazione generale. I dati suggeriscono che siamo invece deboli nell’intercettare le diagnosi precoci, quelle di chi non presenta sintomi. Ma sono proprio queste persone che poi mantengono alto il contagio”.
“Quindi io leggo le statistiche attuali in un modo in parte ottimistico, perché sicuramente sono segno che abbiamo delle strategie efficaci, ma dall’altro lato invito alla cautela – avverte Gori – perché Covid può aver influito molto su questi risultati e perché abbiamo da lavorare sulla scoperta tempestiva dell’infezione”.
Quanto all’effetto Covid, anche in questo caso l’infettivologo Gori rileva un duplice aspetto, positivo e negativo. “Questi 2 anni di pandemia e lockdown hanno anche in qualche modo condizionato la possibilità di trasmissione – osserva – nel senso che si sono proprio ridotte le occasioni di contagio. Però questa è una lettura in chiave solo ottimistica. Mentre è molto probabile anche che i casi siano sottostimati proprio perché sono venute a mancare tutta una serie di iniziative. La gestione dei casi di Hiv, la promozione del test, della profilassi (Prep), sono affidati ai reparti di malattie infettive che in questi 2 anni hanno fatto altro. Covid in qualche modo ha condizionato queste attività. Vuol dire che probabilmente i dati vanno presi con un minimo di precauzione perché possono esserci delle sottonotifiche”.
C’è poi l’aspetto “preoccupante – prosegue l’esperto – che gran parte delle diagnosi sono state fatte tardivamente, cioè quando il paziente si presenta in ospedale perché sta male. Mentre mancano quelle che venivano fatte negli anni precedenti, quando la persona senza sintomi aveva semplicemente il dubbio di essersi esposta al contagio e quindi si sottoponeva al test. C’erano prima della pandemia molte occasioni di offerta del test e in questi 2 anni e mezzo sono state spazzate via”. Va evidenziato però anche l’aspetto positivo del trend che si osserva: “In tutti questi anni, Covid permettendo, l’offerta del test, la terapia precoce e l’offerta della Prep qualche risultato è sperabile che l’abbiano avuto”, ragiona Gori, “e quindi c’è anche questa giustificazione alla diminuzione del numero di nuove infezioni, proprio perché c’è stato impegno fortissimo in queste strategie volte a diminuire la circolazione del virus nella popolazione generale”. Si tratta di tre pilastri, rimarca, “che anche in altre metropoli europee e americane – Londra, Parigi, New York, San Francisco – hanno dato dei frutti. Siamo dunque sulla strada giusta e dobbiamo continuare a portare avanti queste tre strategie”.
Come si aumentano le diagnosi precoci? “Offerta del test, educazione, formazione – elenca lo specialista – Abbiamo adesso molti strumenti che possono essere utilizzati e secondo me il ‘self testing’, la possibilità di fare il test comprandolo in farmacia, sicuramente è una rivoluzione. Spingerei quindi più su questi aspetti. A Milano Anlaids sta iniziando un programma che si chiama ‘A casa mi testo’, è un progetto bellissimo: una persona può chiamare l’associazione e le mandano a casa il test. Sono iniziative molto importanti. Certo, questi anni di Covid hanno interrotto completamente queste attività. Bisogna tornare a darsi da fare”, è il messaggio.
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