Psicogeriatri: “Burnout dei caregiver problema non affrontato”
Milano, 6 lug. (Adnkronos Salute) – “C’è un fenomeno, che nel mondo delle demenze è drammaticamente noto, ed è rimasto finora pressoché inaffrontato: è il ‘caregiver burnout’. Le criticità dell’assistenza alle persone con queste patologie sono di vario tipo: prima di tutto queste sono sempre situazioni che richiedono grande investimento di tempo fin dalle prime fasi della malattia, quando i sintomi sono meno forti ma già c’è un grande stress da parte della famiglia. Fino poi alla progressiva perdita di autonomia, all’allettamento e poi alla morte del proprio caro. Sono tutte fasi nelle quali il caregiver è coinvolto in maniera drammatica e non sempre riesce a rispondervi facilmente, anche perché l’assistenza richiede molta fatica fisica e psicologica”. A tracciare il quadro è Marco Trabucchi, direttore scientifico del Gruppo di ricerca geriatrica di Brescia e presidente dell’Associazione italiana di psicogeriatria.
Oggi in occasione di un incontro su questi temi, promosso da Careapt, startup del gruppo Zambon dedicata allo sviluppo di soluzioni di digital health per persone con malattie croniche, in occasione del lancio di DemedyaCare, un programma di teleassistenza e teleriabilitazione disegnata per affiancare i caregiver delle persone con demenza nella vita di tutti i giorni abilitandoli attraverso un programma di ‘coaching occupazionale’, l’esperto parla anche della solitudine di chi assiste un malato di demenza. “Il caregiver non sa a chi rivolgersi, molte volte non ha nessuno a cui chiedere, nella crisi del medico di famiglia e degli altri supporti naturali. La realtà oggi è ancora quella del ‘telefono silenzioso'”.
Per Trabucchi “il medico di famiglia dovrebbe essere più presente. In alcune zone lo è, in altre meno. Bisognerebbe adottare un criterio più omogeneo a livello nazionale di funzione e di presenza. Bisogna dunque che il medico di famiglia faccia il suo mestiere e bisogna ridare speranza al futuro”, non limitarsi a “comunicare che restano 10 anni, poi 9, 8 7, per lasciare infine che queste persone siano colpite dal dolore infinito al momento della morte dei loro cari. La risposta può essere in parte la tecnologia. Cosa non ha funzionato finora? Non siamo mai stati in grado di fare la mediazione con questi strumenti”, conclude.
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