Niente buone nuove dall’Afghanistan talebano. Nonostante i numerosi appelli, i fondi degli aiuti internazionali rimangono in larghissima parte congelati sia per problemi legali connessi – in maniera non sorprendente – alle richieste danni per le vittime delle Torri Gemelle, sia per l’indisponibilità dei governi a riconoscere il nuovo Emirato come interlocutore ufficiale.
Nell’isolamento tutto peggiora inesorabilmente: la crisi alimentare, gli scontri con lo Stato Islamico del Khorasan, perfino la stessa unità interna dei vincitori. Il conflitto inter-talebano, inizialmente limitato fra moderati e haqqanisti, sta infatti assumendo una pericolosa piega etnica. Già nella formazione del governo provvisorio tutti gli analisti notarono come si fosse replicato quello in carica fino al 2001, monoetnico pashtun; l’emarginazione dei talebani tagiki, uzbeki e turcomanni ha chiaramente indispettito i rispettivi gruppi etnici.
Dopo diversi incidenti accaduti nello scorso dicembre, il 13 gennaio i talebani di etnia uzbeka che non avevano già defezionato verso l’Iskp hanno preso possesso di Maimana, la capitale della provincia settentrionale di Faryab, in un’aperta ribellione fomentata dall’imprigionamento del loro comandante più anziano e carismatico: Makhdoom Alem. Anche se al momento la situazione non è degenerata in scontro aperto, questa crisi non potrà che rafforzare lo Stato Islamico che langue, in agguato dei talebani stremati dalla fame, dal freddo e dall’isolamento che loro stessi si sono chiamati addosso.
di Camillo Bosco
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