Due vite, due drammi di guerra
Kateryna e Nataliya, due vite ucraine segnante da eventi contrapposti sotto il segno di un unico, insensato nome: guerra
Due vite, due drammi di guerra
Kateryna e Nataliya, due vite ucraine segnante da eventi contrapposti sotto il segno di un unico, insensato nome: guerra
Due vite, due drammi di guerra
Kateryna e Nataliya, due vite ucraine segnante da eventi contrapposti sotto il segno di un unico, insensato nome: guerra
Kateryna e Nataliya, due vite ucraine segnante da eventi contrapposti sotto il segno di un unico, insensato nome: guerra
Kyiv – Nelle stesse circostanze di tempo e di luogo, le vite di Kateryna e Nataliya sono state segnate da due eventi contrapposti. Entrambe residenti a Kyiv, dopo i primi raid russi le due giovani avevano convinto i propri familiari a trasferirsi temporaneamente in periferia, per trovare riparo presso le abitazioni di alcuni amici. Possedere una villetta provvista di scantinato da adibire a bunker era infatti considerato un vantaggio non da poco e i fortunati locatari di quegli alloggi erano stati presto subissati di richieste da parte di parenti e amici abitanti in centro. Ma la minaccia russa non arrivava soltanto dai cieli e quei ripari ritenuti sicuri sono diventati gelide e anguste bare di cemento in cui i malcapitati si sono trovati confinati di fronte a una minaccia ancora peggiore.
Prendendo il controllo dei villaggi con l’intenzione di lanciare da lì l’offensiva finale a Kyiv, i russi hanno portato l’inferno in città come Bucha, dove Nataliya e Kateryna credevano d’aver trovato riparo. Uscire allo scoperto significava esporsi al tiro nemico ma – in mancanza di corrente elettrica e gas – talvolta era necessario farlo per accendere un fuoco di fortuna e cucinare qualcosa. Neanche ventenne, Kateryna era al nono mese di gravidanza. Prima di rifugiarsi in quel piccolo bunker improvvisato era riuscita a far fuggire all’estero la madre con i suoi fratellini, due dei quali ancora molto piccoli: «Tu vai e salvali, io resto qui con mio marito. Insieme sapremo cavarcela». Da quel momento mamma e figlia hanno perso ogni contatto. La madre di Nataliya era invece rimasta con lei e i genitori disabili, impossibilitati a spostarsi altrove.
La sera del 7 marzo, in pieno assedio rascista, Kateryna avverte le prime doglie. Sopportarle cercando di non attirare l’attenzione dei militari russi sarà uno sforzo sovrumano. La giovane donna racconta d’aver provato in ogni modo a contenere i gemiti dovuti agli spasmi, temendo che a causa sua tutti quanti sarebbero stati uccisi. Vova, un anziano residente di Bucha rifugiato lì sotto insieme a loro, dispone attorno a lei tutto quel che hanno: un secchio d’acqua gelata, qualche asciugamano e un paio di forbici per il giardinaggio. Sarà lui ad assisterla nel parto, riuscendo ad accendere un piccolo fuoco con cui far bollire l’acqua per sterilizzare un canovaccio e le forbici. Alle 4 del mattino dell’8 marzo Vova taglia il cordone ombelicale che lega un bel maschietto alla giovane mamma.
All’alba di quello stesso giorno, la madre di Nataliya sale in superficie per accendere un fuoco identico a quello usato da Vova ma non ha la sua stessa fortuna. Nataliya racconta di averla vista cadere a terra un istante prima di sentire un forte sparo in lontananza. «La mamma era ancora viva, cercava di respirare ma perdeva sangue dal naso. Fissava il vuoto. Ho gridato e papà è salito ad aiutarmi. L’abbiamo trascinata di sotto e mentre le tenevo la testa, abbracciandola, ho notato che un proiettile l’aveva colpita proprio alla nuca. Un cecchino l’aveva uccisa sapendo di mirare a un civile, a una donna indifesa».
Kateryna e Nataliya non si conoscono, ma quando ho ascoltato le loro storie sono rimasto scioccato nel ricollegare quelle circostanze di luogo e di tempo che hanno stravolto per sempre le loro vite.
di Giorgio Provinciali
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