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L’armata degli Zek: i carcerati russi

I carcerati russi, comunemente chiamati “Zek”, guadagnano il diritto di morire al fronte: l’esercito più appropriato per Putin.

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L’armata degli Zek: i carcerati russi

I carcerati russi, comunemente chiamati “Zek”, guadagnano il diritto di morire al fronte: l’esercito più appropriato per Putin.

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L’armata degli Zek: i carcerati russi

I carcerati russi, comunemente chiamati “Zek”, guadagnano il diritto di morire al fronte: l’esercito più appropriato per Putin.

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I carcerati russi, comunemente chiamati “Zek”, guadagnano il diritto di morire al fronte: l’esercito più appropriato per Putin.

L’esercito del criminale Putin ha trovato i suoi membri più appropriati. Già mille galeotti russi comunemente chiamati zek (зек) – contrazione di quel zaključënnyj (заключённый) che in cirillico significa prigioniero – hanno risposto alla disperata chiamata alle armi di Mosca. Il tramite per questa leva di facce patibolari è stata l’ormai celeberrima società Wagner, specializzata nel reclutamento di mercenari nonché nella tortura degli inermi. In tale contesto, i distinguo tra commilitoni e complici si annunciano del tutto illusori.

Le schiere degli invasori della Terra dei Girasoli si sono arricchite quindi non solo di questi disperati ma anche dei loro tipici tatuaggi. Famosi in tutto il mondo, si tratta di veri e propri curricula delinquenziali conosciuti nel fenya (феня, il loro gergo criminale) come mast (масть), cioè “completo sartoriale”, o come frak s ordenami (фрак с орденами), cioè “frac con le onorificenze“, nel caso di set di inchiostri particolarmente fitti ed elaborati. L’esoterismo dei gulag prevede il tatuarsi una donna per una condanna di stupro, un farfallino per un reato finanziario e un coltello per l’omicidio (con gocce di sangue se si è disponibili a compierne altri) ma molto dipende dal contesto e domandare spiegazioni spesso è inutile.

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Esistono persino veri e propri galloni da disegnare sulle spalle dei blatnye (o vory-v-zakone, i capibastone che formano la “parentela dei ladri”) e dei moujiki (i “veri uomini”), cioè i criminali impenitenti che si comportano come kapò informali in parte autonomi rispetto alle guardie. I carcerati che collaborano con l’autorità penitenziaria sono invece i malvisti kozly (“caproni”) ma gli ultimi gradini della gerarchia sono occupati dai opouchtchenye (i “sottomessi”, che vengono marchiati come omosessuali passivi tramite stupri di gruppo) e dai derelitti petoukhi (“galli”), questi ultimi buoni solo a subire violenze verbali, fisiche e sessuali e a dormire per terra vicino alle fetide latrine (le infami parasha) delle camerate. «Sento una voce che arriva dalla parasha» è infatti il peggior insulto che si può rivolgere, in Russia, a un avversario con cui si sta discutendo: l’insultato dovrà rispondere per forza con violenza per non essere ridotto a subumano nel giudizio dei presenti.

Non è difficile immaginare come anni di questo ameno ordinamento – in cui ogni dì si può arretrare di un passo verso l’inferno, anche e soprattutto per le violenze delle guardiepossano spingere i rei convitti ad accogliere ogni tipo di scappatoia per terminare l’internamento. Evgenij Viktorovič Prigožin stesso, il proprietario della Wagner, ha condotto il giro per proselitare nelle Z truppen ladri e assassini con pregressa esperienza militare, esordendo a ogni tappa come un life coach: «Anch’io mi sono fatto 10 anni di galera e ora guardatemi: sono un Eroe della Federazione Russa». Alla lettera, visto che ha ricevuto l’omonima onorificenza dal Cremlino. Niente male davvero per uno che prima del 24 febbraio non riusciva neanche a farsi dare udienza dal ministro Shoigu, il quale gli preferiva gruppi mercenari gestiti in parte dallo Stato russo come Redut, Moran o Rsb.

Gli ucraini ritengono però che già 500 di questi ‘volontari’ siano morti o feriti, i cui cari difficilmente riceveranno le compensazioni economiche che invece spettano ai militari. Nessuna Lada quindi agli ex carcerati, piuttosto la libertà di morire nelle campagne ucraine per la maggior gloria del regime siloviko.

di Camillo Bosco

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