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Putin, grottesco Sisifo

Il russkiy mir minaccia di travolgere il fascismo russo come una valanga
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Putin, grottesco Sisifo

Il russkiy mir minaccia di travolgere il fascismo russo come una valanga
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Putin, grottesco Sisifo

Il russkiy mir minaccia di travolgere il fascismo russo come una valanga
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Il russkiy mir minaccia di travolgere il fascismo russo come una valanga
Accompagnato dallo sciabordio delle onde, l’ultimo traghetto ha lasciato Chersòn. Da ieri chi vorrà passare alla riva Est del Nipro dovrà farlo per conto proprio. La città si avvicina a una resa dei conti e con lei anche le fortune dello zetismo. Lungi dall’idea di nobilitare le miserie del criminale Putin, è possibile tuttavia che il despota russo ci ricordi – in questi giorni – il personaggio di Sisifo. Il suo personale masso è la diffusione del russkiy mir (“mondo russo”) quantomeno nei territori ex sovietici, mentre la forza irresistibile di discesa che gli si contrappone pare essere la mera realtà dei fatti. È indubbio che nel 2014 i suoi sforzi per riportare – anche grazie alla complicità dell’allora presidente Janukovyč – a protettorato russo l’Ucraina indipendente rovinarono a valle grazie al coraggio dei giovani ucraini che si immolarono durante le rivolte di Euromaidan. Gli andò meglio in Crimea, dove i suoi “omini verdi” (soldati russi senza insegne) coartarono un referendum che non poteva essere rifiutato. Quando poi il suo sgherro Igor’ Girkin si fiondò a Slov’’ans’k per raddoppiare la posta in palio, fu di nuovo il sangue dei patrioti del Paese dei Girasoli a fermare l’avanzata dello straniero nelle città di Luhans’k e Donec’k. Seguirono quindi gli anni dei Protocolli di Minsk, con cui Mosca voleva influenzare la politica del vicino grazie all’istituzione di uno statuto speciale nei territori che occupava militarmente. Stanco di notare gli scarsi risultati dei suoi sforzi in tal senso, nello scorso febbraio il Cremlino ha dunque deciso di impegnarsi al massimo per far raggiungere la vetta al suo macigno. Così sono quasi arrivati a Kyïv, a Sumy, a Černihiv, a Charkìv, a Mykolaïv, a Odesa. Quasi, però, resta la parola chiave. Per la terza volta il popolo ucraino ha infatti reagito e il sasso si è fermato, per poi riprendere a rotolare verso il basso. Prima venne la ritirata dalla capitale e dal Nord come gesto di buona volontà. Poi l’abbandono dell’Isola dei Serpenti. La ritirata da Charkìv e Lyman sorprese alcuni, mentre il ridimensionamento a Chersòn fu previsto da molti. Per fermare la frana il regime siloviko ha invocato la mobilitazione, riempiendo però il web di messaggi di mobiki infuriati per la mancanza d’addestramento e di equipaggiamenti. Come un gruppo di Batajsk, dell’oblast’ di Rostov, inviato al fronte senza visite mediche e con armi dalle canne arrugginite e storte. A Kazan’, nel territorio russo del Tatarstan, centinaia di coscritti hanno invece accerchiato la tenda del loro generale per chiedere il pagamento degli stipendi. Una stabilizzazione del fronte ottenuta a spese di un ottovolante di tensioni sociali. L’umiliazione della parziale distruzione del ponte di Kerč’ è stata bilanciata dallo scempio portato sulla rete elettrica ucraina dai droni iraniani, sennonché ora minacciati a loro volta dai sistemi antiaerei Iris-T (tedeschi), Aspide (italiani) e Nasams (norvegesi). L’arrivo dall’Europa e dagli Usa dei generatori servirà poi a limitare l’entità dei danni già inflitti e oggi i ruscisti, al netto della propaganda, sentono sempre di più il peso della pietra sospinta dal loro Sisifo. Non rimane loro che osservare con ansia la partenza dell’ultimo traghetto da Chersòn, ennesima cattiva notizia che va a comporre la ghiaia della valanga che seppellirà presto il fascismo russo.   di Camillo Bosco  

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