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Donald trionfante

Quella di Donald Trump non è una vittoria, ma un trionfo. Il segno della volontà degli elettori è inequivocabile e si ritrova anche nei voti popolari

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Quella di Donald Trump non è una vittoria, ma un trionfo. Il segno della volontà degli elettori è inequivocabile e si ritrova anche nei voti popolari

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Quella di Donald Trump non è una vittoria, ma un trionfo. Il segno della volontà degli elettori è inequivocabile e si ritrova anche nei voti popolari

Quella di Donald Trump non è una vittoria, ma un trionfo. Il segno della volontà degli elettori è inequivocabile e si ritrova anche nei voti popolari e negli equilibri al Senato e alla Camera dei rappresentanti. Cappotto. Prima di provare a intravvedere cosa questo comporterà è necessario provare a capire come questo sia stato possibile. La seconda cosa, del resto, è necessaria per potersi permettere la prima.

Che Kamala Harris fosse una candidata debole non lo scriviamo adesso, ma da quando la scelsero. I sondaggi, oramai, fanno parte più della propaganda che della conoscenza della realtà. Fu scelta all’ultimo momento e per disperazione. Per capire il come, per capire l’ante-trionfo trumpiano, non serve concentrarsi sulla figura (o non figura) della candidata, ma sul perché i democratici le si siano aggrappati tardi e per disperazione. E la risposta è: perché s’erano svuotati di politica e Biden – che è vecchio e stanco, ma niente affatto rintronato – poteva vantare successi economici che se fossero i nostri staremmo ballando la tarantella per festeggiare. Eppure no, non era un buon candidato, non avendo nulla da opporre a un mondo occidentale lamentoso e astrattamente rivoltoso. E in tutto il mondo del Partito democratico non hanno trovato uno straccio di candidato alternativo. Hanno demolito il loro presidente senza affrontarlo.

Anche i repubblicani non hanno fatto che cedere alla oramai completa colonizzazione trumpiana e anche Trump è un candidato vecchio, d’anagrafe e perché ex presidente. Ma non è vecchio nel cavalcare la vincente rivolta, la contrapposizione, il rifiuto. Di cosa? Dell’establishment.

I democratici sono stati così privi di politica da essersi fatti identificare con il potere consolidato, come avviene anche alla sinistra europea. Il linguaggio di Trump, invece, è studiato per sembrare un antagonista del potere costituito. Lui, un miliardario sostenuto dall’uomo più ricco del mondo. I democratici sono rimasti prigionieri della viltà che li ha spinti a non condannare linguaggi non meno ripugnanti di quello di Trump, come le pagliacciate woke o politicamente corrette. Sono queste perversioni che hanno fatto diventare gli insulti un contenuto, il dileggio un pensiero, perché hanno avuto la pretesa di codificare il vocabolario dei per benino e quello dei reprobi. La stessa trappola in cui è finita tanta parte della sinistra, che oramai parla solo di sesso e con infinita pelosità, tanto che chiede spazio per le donne e intanto pretende che siano donne i maschi che si sentono donna, mentre alle elezioni le donne vincono se sono di destra. Trump ci ha messo del suo, ma gli altri se la sono andata a cercare anche lasciando a Musk il dominio digitale.

E perché ci si è ridotti allo scontro fra politicamente corretto e politicamente scorretto, in un festival dell’ipocritamente corrotto? Perché la classe dirigente politica è di seconda o terza scelta. Senza offesa, ma è determinante capirne la ragione. In Usa, come in Ue, come in Italia, esistono eccome qualità, genialità, coraggio e classe dirigente. C’è un dettaglio: quest’ultima non fa politica. Questo è il punto decisivo: non la fa perché la stagione delle grandi scelte è passata e per amministrare il condominio basta e avanza il ragioniere, che far quattrini è più interessante delle liti di ballatoio.

È su questo che l’Occidente rischia di farsi tanto male. In Cina la classe politica è di altissima formazione. In Russia Putin è espressione di un’idea della storia patria. In Arabia Saudita il potere è in mano a chi si è formato nelle migliori università occidentali. E via andando. Non sono affatto superiori i dispotismi, è che le democrazie si sentono troppo sicure. Ed è che gli elettori credono che sia possibile avere sempre di più non votando le (diverse) politiche, ma rifiutandole.

C’è di buono che il risultato americano è così chiaro da non lasciare la tentazione di coprire ancora gli errori di Clinton o di Obama, dovendo i democratici cambiare pelle. Sperando sia un trauma bastevole. Anche dalle nostre parti.

di Davide Giacalone

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