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condanne a morte corte di donetsk

L’infondatezza delle condanne a morte della Corte di Donetsk

Le condanne a morte pronunciate dalla Corte suprema dell’autoproclamata repubblica di Donetsk non rispettano il diritto internazionale. Non solo non hanno fondamento giuridico ma equivalgono esse stesse a un crimine di guerra.
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L’infondatezza delle condanne a morte della Corte di Donetsk

Le condanne a morte pronunciate dalla Corte suprema dell’autoproclamata repubblica di Donetsk non rispettano il diritto internazionale. Non solo non hanno fondamento giuridico ma equivalgono esse stesse a un crimine di guerra.
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L’infondatezza delle condanne a morte della Corte di Donetsk

Le condanne a morte pronunciate dalla Corte suprema dell’autoproclamata repubblica di Donetsk non rispettano il diritto internazionale. Non solo non hanno fondamento giuridico ma equivalgono esse stesse a un crimine di guerra.
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Le condanne a morte pronunciate dalla Corte suprema dell’autoproclamata repubblica di Donetsk non rispettano il diritto internazionale. Non solo non hanno fondamento giuridico ma equivalgono esse stesse a un crimine di guerra.
Non ha fondamenti giuridici il processo conclusosi innanzi alla Corte suprema della autoproclamata Repubblica di Donetsk con la condanna a morte di tre militari stranieri arruolati nelle forze ucraine. La Repubblica di Donetsk è occupata dai russi dal 2014 ma è ancora sotto sovranità dell’Ucraina: le decisioni di organi giudiziari autocostituiti, in assenza di un formale riconoscimento ucraino, sono quindi ampiamente contestabili. In ogni caso si sarebbero dovuti rispettare gli standard del “giusto processo” previsti dalle Convenzioni di Ginevra anche per i crimini di guerra. L’accusa di essere mercenari di per sé non può giustificare una condanna a morte, a causa del principio di proporzionalità rispetto al grado di offensività del fatto-reato. Inoltre, la circostanza che i tre militari siano cittadini stranieri non comporta l’automatica qualificazione di mercenari. Per essere considerati tali, e quindi non più tutelati come prigionieri di guerra (il che non significa che possano subire trattamenti disumani o essere passati per le armi), occorrono le condizioni previste dall’articolo 47 del I Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra. Presupposto fondamentale è che non siano inquadrati nelle forze armate regolari, poste sotto comando o autorità dello Stato. Quanto alla condizione di foreign fighter, per il diritto internazionale sarebbe illegittima solo per il reclutamento in organizzazioni terroristiche o comunque considerate illecite dalle Nazioni Unite. I tre condannati risultano essere stati inquadrati in unità regolari delle forze armate ucraine e ciascuno di loro ha un particolare percorso che non risulta collegato a organizzazioni mercenarie o terroristiche. Sean Pinner, 48 anni, ha servito l’esercito britannico in Irlanda del Nord e in Bosnia nel reggimento della Royal Anglian; coniugato con una ucraina che lavora in un’organizzazione umanitaria, è ufficialmente arruolato nell’esercito ucraino. Aiden Aslin, 28 anni, del Nottinghamshire, si era arruolato nelle Ypg curde del Rojava, in Siria, per combattere contro i terroristi dell’Isis, «per una scelta di libertà, di tutto l’Occidente»; dal 2018 era giunto in Ucraina dove si era poi arruolato nei marine nazionali. Il marocchino Saadun Brahim, 25 anni, si trovava da tempo a Kiev dove studiava al Politecnico e si era anche lui arruolato nelle forze regolari ucraine. Le fonti filorusse di Donetsk riferiscono che i tre avrebbero confessato di essere stati addestrati per commettere atti di terrorismo, ma non è stato accertato come queste ammissioni siano state ottenute e cosa volessero indicare. Se si riferiscono ad atti di guerriglia o di sabotaggio esclusivamente rivolti contro obiettivi militari russi e non contro i civili, sono da considerarsi atti legittimi di guerra. La portavoce delle Nazioni Unite per i diritti umani Ravina Shamdasani ha denunciato: «Tali processi ai prigionieri di guerra equivalgono a un crimine di guerra». Sarà il caso che la comunità internazionale – l’Onu in particolare ma anche la Corte penale internazionale – sostenga il giudizio in appello richiedendo che si accertino compiutamente i fatti e i princìpi di diritto internazionale, annullando in ogni caso la condanna a morte. Magari anche proponendosi come mediatori per un accordo sulle regole di giurisdizione, sullo scambio dei prigionieri e per la concreta applicazione delle Convenzioni di Ginevra. Di Maurizio Delli Santi

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