Inchiesta israeliana sul massacro delle ambulanze
Inchiesta israeliana sul massacro delle ambulanze. L’organizzazione israeliana Yesh Din, specializzata nella difesa dei diritti umani, lancia l’allarme: “Indagini difficili a causa degli interessi nazionali”
Inchiesta israeliana sul massacro delle ambulanze
Inchiesta israeliana sul massacro delle ambulanze. L’organizzazione israeliana Yesh Din, specializzata nella difesa dei diritti umani, lancia l’allarme: “Indagini difficili a causa degli interessi nazionali”
Inchiesta israeliana sul massacro delle ambulanze
Inchiesta israeliana sul massacro delle ambulanze. L’organizzazione israeliana Yesh Din, specializzata nella difesa dei diritti umani, lancia l’allarme: “Indagini difficili a causa degli interessi nazionali”
Inchiesta israeliana sul massacro delle ambulanze. A due settimane dal ritrovamento dei corpi del “Massacro dei paramedici”, avvenuto e occultato lo scorso 23 marzo, è utile fare un punto sulla vicenda. Soprattutto perché il silenzio dell’amministrazione Trump a riguardo dell’errore israeliano ha portato a una narrazione frammentaria e tardiva di quanto accaduto. Unito a un enunciato benaltrismo dei funzionari statunitensi interrogati sull’argomento («È una guerra scatenata da Hamas» et cetera),
È il 18 marzo quando il governo di Benjamin Netanyahu, dopo settimane di schermaglie da ambo i lati, interrompe la tregua per un disaccordo con la dittatura militare gazea riguardo le modalità di rilascio degli ostaggi. Il patto prevedeva di passare a una seconda fase col ritiro totale delle truppe di Gerusalemme dalla Striscia. Ma Netanyahu ha le spalle coperte da Washington e decide di soddisfare gli appetiti dell’ala suprematista del suo governo. Così Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir ottengono la ripresa della campagna militare, in vista della sempre più probabile ri-occupazione israeliana di Gaza.
I bombardamenti preparatori al rientro in territorio nemico dei soldati di Tsáhal, l’Armata di difesa d’Israele, sono massicci. Sia dall’aria coi cacciabombardieri, sia dalle artiglierie schierate intorno all’exclave palestinese. Il tiro degli ordigni non è indiscriminato ma – a causa della fitta densità urbana nella Striscia e della voluta mancanza da parte di Hamas di una distinzione fra strutture civili e militari – il numero di vittime è elevato. Israele colpisce i suoi nemici, presunti o verificati, anche a costo di vittime collaterali. Le ambulanze e i camion dei vigili del fuoco si muovono freneticamente da un edificio all’altro, scavando tra le rovine dei palazzi livellati ed estraendo i corpi dalle macerie. Trascorrono così una, due, tre notti. Alla quarta un gruppo di soccorritori cade in quella che sembra un’imboscata dei soldati di Tsáhal.
Le ambulanze sono in viaggio verso l’area di al-Hashashin della città di Rafah, la più meridionale della Striscia, quando il centro di controllo perde il contatto radio con loro. Un’altra squadra viene mandata a cercarle, ma entrambi i team spariscono nella notte gazea. Già dal giorno successivo però si intuisce cosa sia successo: Munther Abed, un volontario ventisettenne della Mezzaluna Rossa, ha passato la notte come prigioniero dei militari di Tsáhal ed è stato liberato soltanto al mattino.
Ritornato alla sede racconta come i suoi due colleghi di ambulanza siano morti alla guida del mezzo, falciati da una raffica. Lui è stato spogliato, interrogato e – riporta – torturato fino a essere costretto a identificare alcuni abitanti del quartiere. È l’unico sopravvissuto al massacro che si è consumato quella notte. La Mezzaluna Rossa si mette subito alla ricerca dei corpi e del veicolo, ipotizzando che anche gli altri scomparsi abbiano fatto la stessa fine dei colleghi di Abed. A causa dell’ostruzionismo di Tsáhal impiega una settimana per scoprire la fossa comune improvvisata in cui si trovano i quindici corpi e i veicoli accartocciati. Uno dei soccorritori, Assad al-Nassasra, risulta tuttora disperso.
Inizialmente le autorità israeliane hanno affermato che la sparatoria ha avuto luogo a causa del procedere sospetto dei mezzi, addirittura a fari spenti. Tuttavia un video ritrovato in uno dei cellulari dei palestinesi ha sconfessato tale ricostruzione. Il generale Eyal Zamir (comandante di Tsáhal) ha dovuto ammettere l’errore, dando il via a un’inchiesta interna. Peccato che l’organizzazione israeliana Yesh Din – specializzata nella difesa dei diritti umani – sostenga che difficilmente tali indagini siano votate alla ricerca di una verità che possa confliggere con gli interessi nazionali.
Di Camillo Bosco
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