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La pace di Trump cala sul Medio Oriente

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La tregua mediata dagli Stati Uniti arriva dopo che l’Iran «si è sfogato», per usare le parole di Trump stesso, con un attacco missilistico sulla base statunitense di al-Udeid in Qatar

La pace di Trump cala sul Medio Oriente

La tregua mediata dagli Stati Uniti arriva dopo che l’Iran «si è sfogato», per usare le parole di Trump stesso, con un attacco missilistico sulla base statunitense di al-Udeid in Qatar

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La pace di Trump cala sul Medio Oriente

La tregua mediata dagli Stati Uniti arriva dopo che l’Iran «si è sfogato», per usare le parole di Trump stesso, con un attacco missilistico sulla base statunitense di al-Udeid in Qatar

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«Il cessate il fuoco è in vigore, cortesemente non violatelo» è l’ultimo messaggio del presidente statunitense Trump, che ha imposto la pax trumpiana sul conflitto scatenato dal governo di Benjamin Netanyahu per stroncare il programma atomico iraniano. La tregua mediata dagli Stati Uniti arriva dopo che l’Iran «si è sfogato», per usare le parole di Trump stesso, con un attacco missilistico sulla base statunitense di al-Udeid in Qatar. Una ritorsione simbolica, come da desideri del tycoon, che ha coinvolto soltanto quattordici missili con nessuna vittima e quasi nessun danno (tredici intercettati e uno caduto su un’area vuota).

In realtà questa tregua non giunge come un fulmine a ciel sereno: la guerra si stava mettendo male per Teheran, mentre Gerusalemme temeva un allungarsi del conflitto che avrebbe aumentato statisticamente col tempo la possibilità che qualcosa andasse tremendamente storto. Aver dimezzato l’arsenale missilistico iraniano e colpito tutti i centri del programma atomico conosciuti può essere chiamato una vittoria per il governo di Benjamin Netanyahu, che già nella giornata di ieri aveva fatto trapelare la possibilità di sospendere gli attacchi reciproci. L’intervento di Trump è stato davvero un “martello di mezzanotte”, dal nome dell’operazione, che ha fatto capire al regime degli ayatollah il pericolo che stava correndo. 

Netanyahu ha comunque ordinato una sequela di attacchi poderosa nelle ore successive all’intervento iraniano, colpendo gli strumenti dell’oppressione sciita come le forze paramilitari Basij e la cittadella-prigione di Ervin. Uno scivolamento verso tattiche di regime change che segnalavano la volontà israeliana di liberarsi del più grande avversario regionale, sempre con l’aiuto degli Stati Uniti. Questo perché la debolezza di Trump pare essere una sorta di F.O.M.O., fear of missing out (“la paura di perdersi qualcosa”). Netanyahu ha imparato che le fughe in avanti portano il presidente MAGA ad accodarsi per cercare di accreditarsi in momenti storici, nonché assaporare la sensazione di essersi scelto gli alleati più capaci e intelligenti.

Se i primi raid israeliani si fossero trasformati in una disfatta, Trump avrebbe scaricato Israele come un internista incapace. Aver colpito duramente gli iraniani ha invece portato l’amministrazione statunitense a salire sul carro dei vincitori e unirsi persino in un attacco limitato ma distruttivo. Certo che però il presidente degli Stati Uniti non è un burattino israeliano, al contrario di certi disgustosi editoriali apparsi – purtroppo – anche sulla stampa italiana. La prima preoccupazione di Trump è quella di presentarsi come un presidente di pace, che utilizza la forza come un saggio gigante che interviene per instillare il buon giudizio tra i litiganti. Israele canta vittoria, ma le sue ambizioni sono state comunque ridimensionate dalla diplomazia statunitense. 

L’obiettivo trumpiano è quindi pienamente raggiunto, dall’ottica di Washington. Una prima tregua di dodici giorni è stata siglata, a cui probabilmente farà seguito un pacificazione permanente. Almeno da parte iraniana: umiliata, decimata e la cui guida suprema si è rivelata assolutamente inadeguata in tempo di guerra. Chiuso nel suo bunker, Khamenei ha persino perso l’occasione di godere della mediazione turca per evitare lo strike a Fordo, Natanz e Ishfaran. Non abbastanza per una rivolta interna, ma forse il necessario per permettere al presidente iraniano Masoud Pezeshkian di attuare un giro di vite tra i sopravvissuti del regime. La domanda potrebbe porsi in questi termini, riguardo il baraccone militarocratico dei pasdaran: a che serve una dominanza così capillare dei ‘militari rivouzionari’ se poi si perdono le guerre in tal modo? 

Vi è tuttavia un’ombra su questo accordo: la possibilità che Israele intenda questo armistizio ‘alla libanese’, cioè con la possibilità di intervenire dall’alto per eliminare qualsiasi minaccia residua o emergente. Saranno le prossime settimane a stabilire che tipo di pace sarà questa, mentre a Gaza Hamas è sempre più sola e sembra in procinto di accettare finalmente un accordo quadro per liberare tutti gli ostaggi.

di Camillo Bosco

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