La tregua, l’ultima fatica di Biden e il cappello di Trump
L’accordo è oggettivamente merito del lavoro incessante e spesso frustrante di Biden e Blinken. I frutti saranno raccolti da Trump e dalla nuova amministrazione
La tregua, l’ultima fatica di Biden e il cappello di Trump
L’accordo è oggettivamente merito del lavoro incessante e spesso frustrante di Biden e Blinken. I frutti saranno raccolti da Trump e dalla nuova amministrazione
La tregua, l’ultima fatica di Biden e il cappello di Trump
L’accordo è oggettivamente merito del lavoro incessante e spesso frustrante di Biden e Blinken. I frutti saranno raccolti da Trump e dalla nuova amministrazione
L’accordo è oggettivamente merito del lavoro incessante e spesso frustrante di Biden e Blinken. I frutti saranno raccolti da Trump e dalla nuova amministrazione
Nel commentare la tregua nella Striscia di Gaza, accettata formalmente per iscritto poche ore fa da Hamas, abbiamo sottolineato alcuni aspetti oggettivi che ci hanno fatto scrivere di un accordo ‘vero’ fra le parti.
Tanto per cominciare, non ci stancheremo di ripetere che non esiste area al mondo in cui la differenza fra tregua e pace è abissale come in Medio Oriente. Una distanza che affonda le sue radici nella storia e arriva ai protagonisti della trattativa odierna. La tregua appare oggi l’unico scenario credibile per il lapalissiano motivo che Hamas è e resterà per Israele – e c’è da augurarsi per l’intero Occidente – un’organizzazione terroristica volta all’unico obiettivo dell’eliminazione fisica di Israele e degli ebrei dall’area, alla quale nessun governo che si dica amico di Tel Aviv può pensare di lasciare il controllo della Striscia di Gaza, figurarsi ‘farci la pace’. A meno di ricominciare lo stesso, mortale balletto che ha portato al 7 ottobre 2023.
Dunque lasciamo stare la pace: sarà tregua o scenario alla coreana. Un equilibrio per sua stessa natura fragile, sul quale costruire l’assistenza umanitaria a una popolazione ridotta in condizioni intollerabili e poi tessere una complicata tela diplomatica per capire quali personalità ed entità palestinesi possano essere sufficientemente credibili e non eccessivamente corrotte per prendere in mano l’amministrazione della Striscia. Una tregua con i diversi ‘corridoi’ che attraversano quel lembo di terra: il “Filadelfia”, il “Netzarin” e così andare al posto del 38º parallelo che divide le due Coree. Una prospettiva tutt’altro che esaltante e foriera di rischi colossali, figlia dell’incontrovertibile realtà terroristica di Hamas e dell’assoluta spregiudicatezza politica del leader israeliano Benjamin Netanyahu. Quest’ultimo ha finito per accettare – si è persino speso nei confronti dei suoi alleati oltranzisti – un accordo che è lo stesso proposto e quasi raggiunto sei mesi fa dall’amministrazione americana e dai mediatori del Qatar e dell’Egitto.
Perché allora no e oggi sì? Per i sei mesi di guerra in più, nell’irrealizzabile tentativo di estirpare militarmente Hamas dalla Striscia di Gaza. Sei mesi di ulteriore protezione politica di fatto, per evitare a Netanyahu di dover render conto delle sue diverse pendenze. Su tutte, la terribile impreparazione che favorì la mattanza del 7 ottobre. Sei mesi in cui i terroristi – pur sconfitti, piegati e inseguiti in ogni tunnel o anfratto – hanno mostrato di poter ancora arruolare soldati e aspiranti martiri, contando su quelle due generazioni di odio che Israele si è garantita con la reazione senza limiti e strategia a Gaza.
Sei mesi che hanno anche segnato la fine dell’amministrazione Biden e il ritorno di Donald Trump su cui Bibi aveva puntato. C’è un’ironia molto amara: l’accordo è oggettivamente merito del lavoro incessante e spesso frustrante del capo della Casa Bianca e del suo infaticabile segretario di Stato Blinken. I frutti saranno raccolti da Trump e dalla nuova amministrazione, tanto è vero che il presidente eletto si è affrettato a bruciare con un proprio tweet l’annuncio dell’accordo per intestarselo. Per chi non passa le proprie giornate in curva allo stadio, questa è una prova cristallina di quale sia il valore di una democrazia sviluppata e consapevole (capace di andare oltre divisioni profondissime davanti all’impellenza del risultato da ottenere) ma anche l’ultima beffa per un uomo e un politico spesso vilipeso e sottovalutato come Joe Biden. Fra le schiere dei vecchi e nuovi adulatori di Donald Trump e gli osservatori che hanno passato un quadriennio a cercare la migliore occasione per sostenere che Biden fosse rimbambito, si è finito per dare ben più responsabilità alla Casa Bianca di quelle che potesse avere nel rebus quasi impossibile di tenere a freno Netanyahu senza però abbandonare Israele. L’accordo è la prova che Biden alla fine ce l’ha fatta. Saranno in pochi a riconoscergli un qualche merito, distratti dai fuochi d’artificio di Trump e da una tendenza alla genuflessione che ultimamente sembra aver superato il livello di guardia.
di Fulvio Giuliani
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