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Orbán congela la legge bavaglio

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Orbán fa marcia indietro (per ora) sul bavaglio ai media e rimanda di qualche mese la discussione della “legge sulla trasparenza della vita pubblica”

Orbán

Orbán congela la legge bavaglio

Orbán fa marcia indietro (per ora) sul bavaglio ai media e rimanda di qualche mese la discussione della “legge sulla trasparenza della vita pubblica”

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Orbán congela la legge bavaglio

Orbán fa marcia indietro (per ora) sul bavaglio ai media e rimanda di qualche mese la discussione della “legge sulla trasparenza della vita pubblica”

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Orbán fa marcia indietro (per ora) sul bavaglio ai media e rimanda di qualche mese la discussione della “legge sulla trasparenza della vita pubblica”. Sulla carta la norma puntava a tutelare la democrazia dai «tentativi di influenza straniera» ma nella sostanza si trattava di schedare le organizzazioni non allineate (media indipendenti, organizzazioni non governative, associazioni civiche) e bloccarne la ricezione di fondi dall’estero. Inizialmente prevista entro questa settimana, la sua approvazione è slittata in autunno. Lo conferma la rimozione del testo dall’ordine del giorno della Commissione legislativa: «Non prenderemo decisioni prima dell’estate» ha annunciato Máté Kocsis, capogruppo del partito Fidesz che controlla i due terzi del Parlamento ungherese.

Il provvedimento – già soprannominato “LexPutin” per l’affinità con norme in vigore nella Federazione Russa – avrebbe attribuito all’Ufficio per la protezione della sovranità il potere di decidere chi minaccia l’identità costituzionale del Paese. Un’architettura giuridica ambigua ma con prescrizioni chiare: necessità di autorizzazione del governo per ricevere fondi esteri, multe fino a 25 volte l’importo incassato per chi non si adegua, chiusura coatta in caso di mancato pagamento entro 15 giorni. Il tutto con l’occhio puntato soprattutto sulla stampa.

Non si sono registrati sussulti di piazza, non più dei settimanali picchetti contro la già approvata norma anti Pride. Il dissenso si è manifestato in forma silenziosa. In occasione della scadenza per la dichiarazione dei redditi (20 maggio), molti cittadini hanno scelto di devolvere l’1% dell’imposta sui propri introiti (l’equivalente dell’Irpef in Italia, ndr.) a media non allineati. Obiettivo: compensare la minacciata perdita di fondi dall’estero. Il governo ha preso le contromisure correggendo la legge con una clausola retroattiva: il divieto di devolvere contributi ai «nemici dello Stato» oggetto della nuova norma. Il totale delle somme ricavate sarebbe stato dirottato su una fondazione istituita quest’anno, tanto meritevole quanto amica del governo.

Poi il ripensamento: «Siamo uniti nell’intento, ma c’è un dibattito sugli strumenti» hanno precisato i promotori. Una frenata importante, visto che tra i firmatari del testo c’è anche lo stesso premier Viktor Orbán, oltre a un centinaio di suoi parlamentari. Perché questo rinvio? La ragione più evidente guarda a Berlino. La Germania è il primo partner dell’Ungheria nel commercio di beni e servizi. Circa un quarto delle esportazioni finisce a Berlino. E il nuovo cancelliere tedesco Friedrich Merz è fra i promotori di una lettera – firmata da venti Paesi europei – che chiede misure più dure contro la crisi dello Stato di diritto in Ungheria. Un segnale che Budapest non può permettersi di ignorare, dopo anni in cui ha scommesso sulla debole postura degli alleati continentali.

Le pressioni però arrivano anche dall’interno. Tra le organizzazioni che rischiano di finire nel mirino della legge, molte svolgono servizi sociali, sanitari, educativi: supplenze storiche di uno Stato che si ritira ma non rinuncia al controllo. C’è poi il dato politico. I sondaggi – che Fidesz commissiona con frequenza – raccontano di un atteggiamento ostile nei confronti di questa legge anche da parte di sostenitori di Orbán. E non per ragioni ideali. La norma finirebbe dunque per essere un boomerang: rischierebbe infatti di colpire enti amici beneficiari di fondi dall’estero (inclusi quelli dalla matrigna Bruxelles).

Ma guai a cantare vittoria. Come ha dimostrato il caso georgiano sulla legge contro l’influenza straniera, una marcia indietro spesso equivale soltanto a prendere meglio la rincorsa.

di Giacomo Ferrara

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