Russia, i meccanismi della repressione
Russia, i meccanismi della repressione
Russia, i meccanismi della repressione
Mosca – La nuova mostruosa condanna di Alexej Navalny a 19 anni di prigione per “estremismo” non ha neppure tanto scosso un’opinione pubblica occidentale alle prese con una delle estati più calde degli ultimi decenni. Il carattere autoritario del regime di Putin è sotto gli occhi di tutti, ma la rassegnazione sembra affliggere in questa fase perfino i più decisi oppositori non soltanto in Russia ma anche all’estero. Tuttavia la situazione dei diritti umani nel Paese è talmente grave che esige costanti attenzione e mobilitazione.
Dal suo rientro in patria nel 2021 dopo essere stato curato in Germania per le conseguenze dell’avvelenamento subìto durante un suo tour elettorale, Navalny ha accumulato 30 anni e 8 mesi di condanne e se non verrà ancora messo sotto accusa potrà uscire dal carcere nel 2051, all’età di 74 anni. Secondo i dati del portale Doxa (oscurato in Russia), la sua sorte è condivisa da 557 persone già condannate e da altre centinaia in attesa di processo. Si tratta del triplo dei condannati per motivi politici di cinque anni fa.
Il numero relativamente piccolo di prigionieri che soltanto qualche giorno fa ha fatto dire a Putin che «la Russia attuale non è quella del 1937 (il picco delle repressioni staliniane con centinaia di migliaia di condannati, ndr.)»non deve trarre in inganno. Nel computo dev’essere considerato il fatto che in Russia esiste la formula dell’“arresto amministrativo” che, se non sporca la fedina penale, condanna però alla reclusione fino a due mesi in centri di detenzione di quartiere o domiciliari. La pena è prevista per reati minori come blande resistenze a pubblici ufficiali o semplicemente partecipazione a manifestazione non autorizzata ed è stata scontata in questi anni da decine di migliaia di persone. A queste vanno aggiunti 707 casi contro i Testimoni di Geova (fuorilegge dal 2017), i cui seguaci notoriamente si rifiutano di prestare il servizio militare.
Da quando sono state chiuse organizzazioni come Memorial (Premio Nobel per la pace nel 2022) – che non soltanto ha custodito i dati sulle repressioni sovietiche dal 1917 in poi ma ha anche fatto opera di controinformazione sulle limitazioni delle repressioni odierne – è difficile conoscere nel dettaglio il quadro dei soprusi governativi. Spesso le informazioni trapelano ma restano nell’ambito della stretta controinformazione. Come nel caso di Anatoly Berezikov: quarantenne di Rostov sul Don, era stato arrestato il 15 giugno di quest’anno per “attività no war” ed è morto in cella dopo che aveva denunciato al suo avvocato di essere stato torturato con manganelli elettrici. Il caso è stato poi archiviato dalla Procura russa come “suicidio”.
Si tratta di un sistema «selettivo di repressione dei refrattari al sistema», come lo ha definito il professore di Sociologia Boris Kagarlitsky (moscovita, dal 25 luglio anch’egli arrestato per “istigazione all’estremismo”), che prevede diversi gradi di intimidazione e di pressione di cui la condanna penale è soltanto uno degli strumenti. Anche per questo si può ritenere che il regime stia conoscendo una deriva progressiva verso un’inedita forma di totalitarismo.
di Yurii Colombo
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