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Si dimette Hamdok, ci fu il colpo di Stato a ottobre

Dopo il colpo di Stato dello scorso ottobre, era intuibile che il primo ministro sudanese Adbulla Hamdock riproponesse un governo di maggior apertura alla componente civile.
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Si dimette Hamdok, ci fu il colpo di Stato a ottobre

Dopo il colpo di Stato dello scorso ottobre, era intuibile che il primo ministro sudanese Adbulla Hamdock riproponesse un governo di maggior apertura alla componente civile.
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Si dimette Hamdok, ci fu il colpo di Stato a ottobre

Dopo il colpo di Stato dello scorso ottobre, era intuibile che il primo ministro sudanese Adbulla Hamdock riproponesse un governo di maggior apertura alla componente civile.
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Dopo il colpo di Stato dello scorso ottobre, era intuibile che il primo ministro sudanese Adbulla Hamdock riproponesse un governo di maggior apertura alla componente civile.
Era nell’aria che potesse naufragare il tentativo del primo ministro sudanese Abdulla Hamdok di riproporre un governo di maggior apertura alla componente civile dopo il colpo di Stato dei militari dell’ottobre scorso. Nell’ultimo mese ha ripreso piede l’ala più dura della componente militare al governo, che ha reagito alle manifestazioni di un vasto fronte di protesta, indette con lo slogan “Militari in caserma, governo al popolo”. Si parla di un bagno di sangue costato da ottobre 63 morti, migliaia di feriti e centinaia di arresti, con cinque morti negli ultimi scontri della scorsa settimana a Khartoum. Fonti delle Nazioni Unite raccontano anche di violenze sessuali su donne e ragazze come metodo di repressione delle proteste adottato dalle forze di sicurezza sudanesi. Da qui il cortocircuito della crisi: il premier Abdalla Hamdok, un economista che nel 2011 era stato vicesegretario della Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa, ha riconosciuto di non avere la forza politica di indurre i militari ad allentare la morsa della repressione. E soprattutto ha dovuto prendere atto che il suo ruolo non era sostenuto dalla società civile, in specie dal composito fronte delle Forze per la libertà e il cambiamento, molto frammentato al suo interno ma ora compatto nel rifiuto di ogni accordo con i militari. I golpisti sono stati fermi nell’escludere dall’esecutivo e da altre rappresentanze istituzionali queste componenti civili, in cui hanno rilievo anche importanti associazioni professionali come medici, avvocati e ingegneri. Tutto questo ha inasprito le contrapposizioni e prospettato un ritorno al regime islamista di Al Bashir, destituito dalle rivolte del 2019. Il 2 gennaio, in un discorso alla nazione sulle reti televisive, Hamdok ha quindi annunciato le sue dimissioni «irrevocabili». «Ho fatto del mio meglio per evitare il disastro ma vista la frammentazione delle forze politiche e i conflitti tra le componenti civile e militare della transizione, ciò non è avvenuto» ha detto, lasciando quindi un ultimo monito per il Sudan: «È a una svolta pericolosa, che mette a rischio la sua sopravvivenza». A oggi a nulla sembrano essere valse le nuove manifestazioni di sostegno rivolte ad Hamdok dalla comunità internazionale, a cominciare del Dipartimento di Stato degli Usa che ha invitato i governanti a rispettare l’“accordo di condivisione” raggiunto nel 2019 – che prevede la definitiva transizione a un governo civile – e a far cessare la violenza contro i manifestanti. La protesta continua in queste ore nelle strade di Khartoum, come continuano gli interventi repressivi, che per ora si limitano al lancio di lacrimogeni e ai blocchi stradali per tutelare i palazzi governativi. Gli scenari del 2022 per il Sudan presentano dunque ancora forti incognite per la sua stabilizzazione, mentre le certezze saranno ancora quelle degli effetti delle sanzioni internazionali e della sospensione degli aiuti della Banca mondiale su una popolazione di 44 milioni di persone afflitte da condizioni estreme di povertà e dalla malnutrizione. Gli analisti si interrogano se Abdel Fattah al-Burhan, il generale a capo del Consiglio di transizione militare, non pensi di rivolgersi ad altri interlocutori, diversi dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita – che sinora hanno sostenuto il Sudan a patto che si rispettasse la road map del trasferimento del potere ai civili – come ad esempio alla Russia di Putin o a qualche altra potenza regionale che magari condivida la deriva islamista. E molti osservatori guardano ancora con maggiore preoccupazione al ruolo che sembra aver assunto Mohamed Dagalo detto Hemeti, il potente comandante dei sanguinari janiaweed responsabili dei genocidi del Darfur, ora a capo delle Rapid support forces, la componente militare che ora detiene di fatto il potere in Sudan.   di Maurizio Delli Santi

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