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Intervista Federico Petroni Limes

Usa 2024, cosa cambia con Trump. Parla Petroni, analista Limes

“Il voto riflette un grande risentimento degli americani verso l’establishment. Non c’è mai stato un così grande supporto da parte di ispanici, neri e giovani per Trump”

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Usa 2024, cosa cambia con Trump. Parla Petroni, analista Limes

“Il voto riflette un grande risentimento degli americani verso l’establishment. Non c’è mai stato un così grande supporto da parte di ispanici, neri e giovani per Trump”

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Usa 2024, cosa cambia con Trump. Parla Petroni, analista Limes

“Il voto riflette un grande risentimento degli americani verso l’establishment. Non c’è mai stato un così grande supporto da parte di ispanici, neri e giovani per Trump”

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“Il voto riflette un grande risentimento degli americani verso l’establishment. Non c’è mai stato un così grande supporto da parte di ispanici, neri e giovani per Trump”

Una campagna elettorale così serrata non si vedeva da tempo, ma un risultato così schiacciante consegna alla storia le elezioni presidenziali americane del 2024. Non a caso Donald Trump, dopo essere stato indicato come vincitore dalla Fox News, ha definito la sua come la «più grande vittoria politica della storia» statunitense. Il 45esimo presidente americano, che si accinge a diventare anche il 47esimo, ha ottenuto il voto popolare, la maggioranza dei grandi elettori, il successo al Senato e si accinge a replicare alla Camera. Le previsioni della vigilia di un testa a testa, dunque, sono state smentite: «Non si tratta di una sorpresa: anche molti sondaggisti indicavano un ampio sostegno per Trump, mai così popolare rispetto alle precedenti elezioni. Si poteva intuire che fosse in grado di vincere anche il voto popolare e così è stato», commenta Federico Petroni, analista di Limes, curatore della rubrica Fiamme americane. «L’America sta vivendo una crisi di identità e un forte risentimento, non solo per la gestione politica dell’ultimo quadriennio, ma anche a livello più generale nei confronti dell’establishment. Trump ha catalizzato questo sentimento», aggiunge Petroni.

«La vera notizia – prosegue l’analista – è che Trump non ha mai ottenuto un così ampio consenso da parte di ispanici, neri e giovani. Le donne hanno votato più per Harris, ma meno rispetto alle aspettative: lo dicono i numeri e vanno accettati». La candidata democratica, dunque, non ha saputo intercettare il malcontento di larga parte della popolazione: «L’errore è pensare che l’America sia solo quella degli elettori democratici nelle grandi città o dei bifolchi delle campagne che sostengono Trump. Nel mezzo c’è una larga parte di popolazione che da tempo si sente inascoltata, che vive in difficoltà economiche e, paradossalmente, ha votato Trump perché si sente tradita e insoddisfatta dell’amministrazione democratica», spiega Petroni. La vittoria di Trump sembra legata, tra gli altri motivi, alla chiarezza del suo messaggio: stop all’immigrazione illegale, stop all’inflazione e stop alle guerre. «Si tratta di slogan che poi si tradurranno in politiche definite. Sul fronte dell’immigrazione, per esempio, non significa chiudere i confini per sempre: non lo vogliono né gli elettori né i politici repubblicani. Certamente, però, si dovrà controllare una frontiera che, numeri alla mano, ha permesso l’ingresso di 7 milioni di immigrati illegali in 3 anni e mezzo – osserva Petroni – Quanto all’inflazione, molti economisti sottolineano che il taglio delle tasse e i dazi promessi da Trump potrebbero spingerla al rialzo, ma bisogna vedere se poi sarà così. Sicuramente sarà difficile rimettere in sesto l’enorme debito pubblico americano, a causa della storica indisponibilità della popolazione americana ad accettare le tasse”.

Sul fronte delle guerre, invece, qualcosa potrebbe cambiare: “Premesso che non è un uomo solo a deciderle o a porne fine, la nuova presidenza potrebbe accelerare il raggiungimento di un accordo per l’Ucraina rispetto a quanto non ci si aspettasse da una amministrazione democratica, ma occorre capire a che condizioni». Più delicata la situazione in Medio Oriente. Proprio mentre l’America votava, il premier israeliano Netanyahu ha sostituito il ministro della Difesa Gallant con Katz, di fatto cambiando quello che è stato l’interlocutore della Casa Bianca per mesi. Un messaggio chiaro, che arriva dopo che i sondaggi indicavano che il 70% degli ebrei americani avrebbe preferito una vittoria di Trump. «La nuova amministrazione sarà certamente più filoisraeliana. L’Iran è percepito dai repubblicani come l’anello debole dell’asse del male, composto da Cina, Russia e Corea del Nord. Ci sarà più margine per gli israeliani per condurre la guerra secondo i propri obiettivi, sia a Gaza che in Libano, senza escludere rappresaglie maggiori contro l’Iran stesso, ma questo non significherà dare il via libera a colpire i siti nucleari iraniani. Ci sarebbero forti resistenze perché vorrebbe dire entrare in guerra – osserva Petroni – D’altro canto il primo segnale di una vittoria di Trump è stato proprio il cambio del ministro della Difesa israeliano, come se a Tel Aviv avessero già chiaro l’esito del voto americano».

Quanto all’Europa, i primi commenti lasciano intendere l’urgenza di ritrovare una propria compattezza interna di fronte alla prospettiva di un nuovo corso americano, improntato a una maggiore attenzione e difesa dei propri interessi («Make America great again”, come recita lo slogan trumpiano). Il tycoon ha parlato di dazi a protezione dell’economia statunitense, che inevitabilmente danneggerebbero i concorrenti e l’export europeo. Anche sul fronte della difesa, l’Unione ora teme di non poter contare più sul cosiddetto “ombrello americano” come in passato.

«Quell’ombrello è stato pesantemente messo in dubbio da tempo, ma lo sarebbe stato anche con una vittoria di Kamala Harris. La differenza è che Trump ha reso pubbliche alcune criticità: non ha paura di usare i dazi con chi non si conformerà a con quanto richiesto né di minacciare un minor contributo alla NATO. Ma va sgombrato il campo da un dubbio: gli Usa non usciranno dall’Alleanza, casomai lo minaccerà per costringere ad aumentare il contributo da parte degli altri stati membri», sottolinea Petroni.

Di Eleonora Lorusso

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