La grande avventura del fotoreporter più amato e premiato di sempre che è riuscito sempre a restare fedele a sé stesso: Steve McCurry.
Siete sicuri che le foto in bianco e nero siano più belle di quelle a colori? Steve McCurry butta tutto all’aria. Quando ancora usava le pellicole (e la Kodak lo incaricò, nel 2010, di scattare l’ultimo rullino Kodachrome prodotto nella sua gloriosa storia), i colori erano magici, saturi ma reali, e il bello è che nelle sue immagini lo restano anche nell’era del digitale; forse grazie alla laurea in Belle Arti e Architettura, al contrario di molti altri grandi fotografi non è mai caduto nel tranello delle postproduzioni eccessive e di cattivo gusto.
Nasce negli Stati Uniti, a Philadelphia, nel 1950 e dopo la laurea si appassiona alla fotografia, collaborando con diverse testate. Ma la sua carriera trionfale comincia nel 1980 con il prestigioso Premio Robert Capa Gold Medal per le foto dell’Afghanistan, che riesce a riportare in Occidente grazie ai rullini cuciti nei vestiti. Ed è solo l’inizio, perché McCurry verrà insignito di tutti i premi possibili e immaginabili inerenti al reportage fotografico. Spiccano i 4 World Press Contest consecutivi, il più alto riconoscimento mondiale del fotogiornalismo.
Nel 1985 la sua copertina di “National Geographic”, il ritratto di una ragazza afghana dagli occhi verdi straordinariamente intensi, diventa un’icona del Novecento. Si chiama Sharbat Gula e riuscirà a ritrovarla con commovente emozione vent’anni più tardi, invecchiata e segnata da una vita disgraziata, ma intatta nella sua intensità (in questi giorni è stata accolta nel nostro Paese).
Dal 1986 diventa membro dell’agenzia fotografica Magnum Photos e, nonostante abbia lavorato in tutto il mondo, il continente asiatico resta la sua area di riferimento. Documenta numerose volte l’Afghanistan e l’India nonché le guerre in Birmania, Sri Lanka, Beirut, Cambogia, Filippine, Tibet e Kuwait. Un coinvolgimento ancora più profondo lo prova per l’11 settembre del 2001. Quel giorno si trova a New York, appena rientrato da un viaggio in Cina. Realizza le prime foto dal tetto della sua casa e non si ferma più. Vuole testimoniare il dolore e il coraggio della gente. Questo lavoro è un atto d’amore per New York e insieme ad altri grandi fotoreporter consegna quella tragedia alla Storia.
McCurry rimane impressionato anche dalla profondità e dalla forza della cultura giapponese per lo tsunami successivo al terremoto che distrusse, oltre al resto, la centrale nucleare di Fukushima. Nessuno sciacallo ma dignità e solidarietà, soprattutto operosità. Uomini e donne quasi imperturbabili di fronte al disastro.
Adora l’Italia: «Sprigiona senso dello stile e del design. Anche negli angoli più dimenticati e nascosti del Paese ci si imbatte in quantità massicce di eleganza e poesia, nell’architettura e nell’arte». Sente una particolare attrazione per Cinecittà, dove realizza un magnifico servizio sugli studi in cui furono girati molti degli storici capolavori della cinematografia italiana e dove realizza nel 2015 una sua mostra di grande successo.
Tra le altre, va ricordata quella a Milano al Mudec nel 2018, sugli animali di tutto il mondo da difendere, per dichiarare il suo impegno ecologista e dimostrare la sua capacità di fotografo a 360 gradi. Ora organizza workshop a New York e in Asia, per la gioia di chi vuole imparare qualcosa da uno dei più grandi fotografi di sempre.
di Roberto Vignoli
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Tag: fotografia
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