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Deterrenza e diplomazia, parla Alessandro Politi

La Nato mantiene per ora la sua funzione di deterrenza. Le parole di Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation

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C’è chi ne aveva sancito la «morte cerebrale», come il presidente francese Emmanuel Macron. Chi teme invece che possa essere depotenziata in caso di un ritorno alla presidenza Usa di Donald Trump. Ma la Nato mantiene per ora la sua funzione di deterrenza. C’è anzi chi ritiene che – oggi più che mai – quello strumento debba essere valorizzato: «La Nato non solo ha mantenuto per anni il suo ruolo imprescindibile, ma ha attraversato la Guerra fredda compiendo due missioni fondamentali: la deterrenza e il dialogo. Forse ciò che oggi manca di più è proprio il dialogo» afferma Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation.

Soltanto poche settimane fa l’Alleanza Atlantica ha festeggiato i 75 anni di vita. A Norfolk (negli Usa) si è tenuta la parata ufficiale per le vie della città che ospita il quartier generale dell’Allied Command Transformation (Act). Ad aprire il corteo è stata simbolicamente la rappresentanza dell’Ucraina. A seguire la Finlandia, ultimo Paese entrato nell’Alleanza che oggi conta 32 membri: si tratta di uno degli Stati che più avvertono la minaccia russa, insieme alla Svezia e alla Polonia. Quest’ultima, tramite il suo presidente Andrzej Duda, ha offerto la propria disponibilità a ospitare l’arsenale nucleare Nato «se i nostri alleati decideranno di schierarlo».

Parole che hanno aumentato l’apprensione della comunità internazionale: «Bisognerebbe però capire che cosa si vuole ospitare» sottolinea Politi. «In realtà un deterrente nucleare Nato ci sarebbe già. E poi lo stesso presidente Duda ha aggiunto un passaggio non di poco conto, con quel suo riferimento alla volontà dei membri dell’Alleanza. Non bisogna dimenticare infatti che siamo in 32 e non è affatto detto che tutti gli altri membri esprimano il loro consenso al dispiegare armamenti nucleari in Polonia». In ogni caso la Nato c’è e non intende far venir meno il proprio ruolo, come accaduto anche nel recente passato: «Un’offerta analoga era giunta anche dal predecessore di Duda, che disse di essere pronto a ospitare una base americana sul proprio territorio, il famoso Fort Trump. Ma anche gli Stati Uniti stessi, sotto la presidenza di Barack Obama, dispiegarono un dispositivo antimissili balistici iraniani per proteggere la Repubblica Ceca e la Romania». La decisione arrivò dopo il summit di Bucarest del 2008 e fu seguita da un accordo siglato proprio da Polonia e Usa, in collaborazione con la Repubblica Ceca, per un sistema d’arma americano a protezione dei due Paesi alleati.

Esistono dunque oggi rischi reali di nuovi conflitti alle porte o dentro l’Europa? E la Nato saprebbe fronteggiarli? «Non ritengo probabile un attacco russo, il cui esercito è stato messo a dura prova da due anni di guerra in Ucraina» osserva Politi. «Rispetto al periodo della Guerra fredda oggi la situazione è cambiata: all’epoca c’era l’incubo dello strapotere convenzionale del Patto di Varsavia. Adesso non è così. È vero che, in termini solamente numerici, la Russia ha 1,4 milioni di riservisti in più rispetto ai Paesi europei. Ma questi ultimi, con il dovuto impegno, possono raggiungere un rapporto di 1 a 1 in termini di puri numeri di personale, senza contare i contributi nordamericani. Così ai russi servirebbe un rapporto di 3 a 1 o almeno di 2 a 1 per preparare un attacco. E per ora questa proporzione non c’è» fa notare ancora Politi.

«La Russia oggi è sì una minaccia, ma non un nemico con cui siamo effettivamente in guerra. Siamo dei non belligeranti ostili a Mosca, ma non ne siamo bombardati né vogliamo bombardarla» precisa ancora il direttore della Nato Defense College Foundation. «In questa condizione occorrerebbe che la Nato applicasse la ben collaudata dottrina Harmel detta “Deterrenza e dialogo”, che le ha permesso di superare le tensioni più acute della Guerra fredda, coronandone la fine con il trattato di Pratica di Mare con Gorbaciov. Sappiamo com’è andata col trattato, ma l’esigenza del dialogo resta la stessa».

di Eleonora Lorusso

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