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Angelo Branduardi

Il mio pizzico di immortalità, parla Angelo Branduardi

Angelo Branduardi si racconta, dagli esordi fino allo spettacolo di Parigi, che segna per lui un vero cambio di rotta. Della sua “Alla fiera dell’Est”, dice: “È diventata patrimonio popolare”

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Il mio pizzico di immortalità, parla Angelo Branduardi

Angelo Branduardi si racconta, dagli esordi fino allo spettacolo di Parigi, che segna per lui un vero cambio di rotta. Della sua “Alla fiera dell’Est”, dice: “È diventata patrimonio popolare”

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Il mio pizzico di immortalità, parla Angelo Branduardi

Angelo Branduardi si racconta, dagli esordi fino allo spettacolo di Parigi, che segna per lui un vero cambio di rotta. Della sua “Alla fiera dell’Est”, dice: “È diventata patrimonio popolare”

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Angelo Branduardi si racconta, dagli esordi fino allo spettacolo di Parigi, che segna per lui un vero cambio di rotta. Della sua “Alla fiera dell’Est”, dice: “È diventata patrimonio popolare”

Talmente emozionato «da essermi concesso qualche piccolo errore sul palco». È l’ebrezza del ritorno a casa per Angelo Branduardi (la natia Cuggiono, alle porte di Milano), che a 74 anni suonati si è sentito come se fosse alla sua prima volta: «Mi hanno accolto e consegnato le chiavi della città. Qui scrissi “Alla fiera dell’Est”, “Cogli la prima mela”, “La pulce d’acqua”». I grandi capolavori del cantautore, riccioli e violino, che sabato scorso ha celebrato in musica il 50esimo anniversario della sua densa carriera. «Il brano che mi ha impegnato di più? “La luna”. Così semplice eppure delicato. È stato bellissimo: nel parco dove mi esibivo ci sono i pavoni. A un certo punto hanno lanciato il loro grido, che non è piacevole, però era perfetto per la canzone. Sembrava fatto apposta. Una coreografia spontanea». La voce di Branduardi si scalda ancora, sognante: «Se poi la Luna stesse brillando in cielo, sinceramente non lo so: suono e canto a occhi chiusi».

Lo fa da sempre: «In realtà il vero inizio risale al 1972» ci racconta. «Proposi un disco già contenente “Confessioni di un malandrino”, che sarebbe poi diventato un classico. Ma all’epoca fu giudicato brutto dalla Rca, la casa discografica con cui ero allora sotto contratto. Eppure lì qualcuno mi disse: «Perché non scrivi a Paul Buckmaster?». Era l’arrangiatore di mostri sacri come Elton John e David Bowie. Il giovane Branduardi non se lo fece dire due volte e decise di contattarlo: «Gli mandai una lettera e il nastro con la mia musica. Una settimana dopo lui telefonò alla Rca dicendo che c’era un ragazzo che gli interessava. Quando andai a prenderlo in aeroporto mi resi perfettamente conto che quella cassetta non l’aveva nemmeno ascoltata. Era bastata la lettera. Era un personaggio particolare, in piena crisi religiosa. E soprattutto a uno come lui una casa discografica italiana non poteva dire di no. Per me fu la svolta».

Da quel momento Branduardi bruciò le tappe: «Si cominciò a capire che cosa avessi in mente, qualcosa di musicalmente diverso da tutto quel che circolava in quel periodo». Le influenze dall’estero (Cat Stevens in primis), sonorità intimistiche e medievaleggianti. Senza perdere la rotta del folk. E oltre. «Per una ventina d’anni ho fatto la rockstar. Poi, una notte a Parigi, l’acme e la fine insieme: suonai all’aeroporto Le Bourget, su un palco disegnato dall’architetto Niemeyer e con 140mila persone davanti a me. Lì capii che quella fase era compiuta. Eccessiva, isterica. Così cominciai a togliere anziché ad aggiungere, sperimentai armonie meno commerciali ma comunque funzionanti. Fino al disco che preferisco: “L’infinitamente piccolo”, commissionato dai Francescani. Nessuno voleva pubblicarlo, ma a suo tempo era stato lo stesso anche per “Alla fiera dell’Est”». A Branduardi non dà fastidio chi oggi lo associa soltanto al suo brano più famoso: «Tutt’altro, del resto ormai lo insegnano a scuola. Nessun bambino sa chi è Branduardi. Quindi significa che la canzone non mi appartiene più: è diventata patrimonio popolare. E questo, se posso essere immodesto, è un pizzico d’immortalità».

A Branduardi però dà fastidio certa musica che si sente in giro oggi: «La volgarità del trap e del rap. Conosco poco l’attuale panorama italiano, non intravedo però i talenti di una volta». Ci tiene a rimarcare un certo distacco: «Per ora non ho voglia di scrivere, forse perché non mi viene in mente niente…» dice sorridendo. «Ma giro in tournée e mi diverto. Faccio le cose per piacere mio e per quello degli altri. Non mi metto a fare i conti. Non li ho mai fatti, anche sbagliando: nella mia carriera ho realizzato del bello e del brutto, ma sempre secondo sincerità». Quindi ripensa «a una frase di Ennio Morricone, con cui ho lavorato nei suoi ultimi anni: essendo la musica l’arte più astratta è la più vicina all’assoluto». Un tutt’uno tra uomo e natura. Come pavoni impertinenti e una Luna cantata senza vederla.

Di Francesco Gottardi

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