Trump e il credo protezionista, parla l’economista Paolo Guerrieri
Mentre l’Europa s’interroga sui possibili effetti dei dazi di Donald Trump, gli americani continuano a spendere. Le parole di Paolo Guerrieri, docente di Economia all’Università Sciences Po di Parigi

Mentre l’Europa s’interroga sui possibili effetti dei dazi di Donald Trump, gli americani continuano a spendere. Tanto, troppo: «È da molto tempo, almeno 25 anni, che gli Stati Uniti consumano molto più di quanto producono. Questo gap è stato sempre colmato con le importazioni e la spesa fiscale, creando due deficit gemelli. Uno commerciale e l’altro fiscale, figli entrambi di un modello che si basa su consumi e importazioni. Ma che alla lunga è difficile da sostenere, come dimostrano gli ultimi colpi subiti dai titoli di Stato americani» osserva Paolo Guerrieri, docente di Economia all’Università Sciences Po di Parigi.
Paolo Guerrieri: “Gli Usa sono diventati il grande acquirente del mondo”
«Gli Usa sono diventati il grande acquirente del mondo scegliendo questo modello che possono permettersi di sostenere perché pagano con il dollaro, che è la moneta internazionale» aggiunge il professore. Ma quanto ancora reggerà il sistema? «Andrebbe corretto modificando lo squilibrio di base, trovando il modo di produrre di più e consumare di meno. Cioè in funzione di quanto si produce, anche con una politica fiscale più accorta» afferma Guerrieri. Tradotto, significherebbe aumentare le tasse. Ma è un’ipotesi non percorribile: «Non è assolutamente contemplata dall’amministrazione Trump, come non lo è stata da chi lo ha preceduto. Per questo il presidente ha individuato un ‘colpevole’ generico nei Paesi stranieri. Sostenendo che il problema dipende proprio dagli altri Stati, che sfruttano gli Stati Uniti e li imbrogliano mettendo barriere doganali sulla merce americana esportata».
Prosegue Guerrieri: «D’altro canto per Trump il protezionismo è una ‘religione’ professata da molti anni. Oggi lo è ancor di più perché tiene in qualche modo in piedi la narrazione secondo cui, appunto, la colpa dell’attuale condizione americana è del resto del mondo, dunque occorre intervenire imponendo dazi su tutte le importazioni». Il problema è la sostenibilità delle tariffe, in primo luogo per gli stessi americani: «Si trasformerà in un aumento dei prezzi per i consumatori statunitensi. La situazione interna non migliorerà affatto, anche perché la nuova legge di bilancio aumenterà il deficit senza correggerne le cause».
L’imprevedibilità della politica di Trump
A una congiuntura così incerta si aggiunge l’imprevedibilità della stessa politica del presidente Usa (ribattezzata “Trump economy”), fatta di stop and go continui, di annunci di dazi poi puntualmente sospesi, modificati o ritrattati. L’interrogativo è su quanto di volontario ci sia in questo atteggiamento, se cioè sia il frutto di un piano vero e proprio o non sia invece l’effetto di fughe in avanti troppo drastiche e delle quali non si calcolano preventivamente gli effetti. «Trump è un negoziatore di vecchia data, fin da quando era un immobiliarista» spiega Guerrieri.
Come in una partita di poker di proporzioni globali, il tycoon ama alzare la posta, per portare a casa un risultato anche più contenuto.
«Ma attenzione: a volte le conseguenze possono essere molto dannose. Basti ricordare cosa è successo dopo l’annuncio di super dazi il 2 aprile scorso. La reazione veemente delle Borse e gli effetti sui titoli di Stato americani lo costrinsero a ritrattare. Trump ha cercato di farla passare per “flessibilità”, come l’ha definita, ma in realtà si è trattato di una vera e propria ritirata. Lo stesso è accaduto nella trattativa con la Cina. Era partito lancia in resta, ma poi ha considerato che la stragrande parte dei prodotti americani viene realizzata proprio in quel Paese, che dunque rimane fondamentale per gli Usa. Sono riflessioni fondamentali che dovrebbero unirsi a scelte impopolari, come politiche di aggiustamento fiscale (ossia un aumento delle tasse) e riduzione delle spese. Entrambe impensabili per Trump, anche perché significherebbe ammettere che il problema è soprattutto interno».
di Eleonora Lorusso
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