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Jung, la follia che indaga sé stessa

Non sono in molti a sapere che lo psichiatra Jung è stato a lungo davvero pazzo. Per capire la follia ha dovuto viverla
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Jung, la follia che indaga sé stessa

Non sono in molti a sapere che lo psichiatra Jung è stato a lungo davvero pazzo. Per capire la follia ha dovuto viverla
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Jung, la follia che indaga sé stessa

Non sono in molti a sapere che lo psichiatra Jung è stato a lungo davvero pazzo. Per capire la follia ha dovuto viverla
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Non sono in molti a sapere che lo psichiatra Jung è stato a lungo davvero pazzo. Per capire la follia ha dovuto viverla
Il largo pubblico ha di Jung un’immagine tradizionale di maturo studioso: saggio, solido, autorevole. Serietà elvetica, sapienza carismatica. Le sue principali idee-forza sono ampiamente note: dall’inconscio collettivo al valore di miti, simboli e archetipi, oltre agli interessi per l’occulto. Mentre poco o nulla si dice della rivoluzionaria metodologia che consentì allo psichiatra (che meglio definiremmo pensatore ricchissimo e molto completo) di dar corpo alla sua opera, quale ponte di congiunzione tra la cultura occidentale e orientale. Il primo dato, il più immediato e sconvolgente, è che Jung era (o è stato a lungo) davvero pazzo. Per capire la follia ha dovuto viverla: «intender non la può chi non la prova» avrebbe detto Dante. Il giudizio, o diagnosi, è del filosofo Umberto Galimberti nonché di Pietro Citati, che in un bell’articolo ricostruisce vividamente i tratti e le dinamiche di questa psicosi. Come il nauseato esistenzialista Sartre parlava a lungo con la sua panchina (la panchina sono io o viceversa?), Jung sviluppava intensi dialoghi col sasso su cui amava sedere (il sasso sono io o viceversa?). Non poco eccentrico a detta di vicini e conoscenti, giocava a lungo con l’acqua – laghi, paludi, pozzanghere. Trascorreva ore a spaccare pietre e scavare buche: finché edificava una massiccia torretta a tre piani, quale rifugio privato infestato da spettri e demoni. Se il primo dato – la follia – è sconvolgente, il secondo è rivoluzionario ai fini della conoscenza: Jung stesso, consapevole delle proprie turbe, arriva a studiarle e a usarle per le sue ricerche. Il soggetto si fa oggetto. Conosce sé stesso, socraticamente, come presupposto d’ogni altra indagine. E per primo, con coraggioso candore, si apre a confessioni terribili sui «pensieri che mi hanno travagliato», dove «mi sentii impegnato a sondare per prima cosa la mia stessa psiche»: vedi “Ricordi, sogni, riflessioni”, vedi soprattutto “Il libro rosso”, prezioso verbale segretamente redatto per sedici lunghi anni, poi pubblicato postumo. Qui, fra elaborate policromie orientaleggianti, trovi di tutto: allucinazioni notturne, paranoie, suggestioni mefistofeliche, invettive blasfeme, violente tempeste mentali. Un viaggio agli inferi da cui scaturisce la rappresentazione dell’inconscio come la forza oscura più potente della psiche: fra contenuti atavici, ereditari e forse genetici c’è un universo tutto da esplorare, un patrimonio di tesori sedimentati nei secoli e nelle generazioni, ben più ricco e misterioso della discarica di vergogne represse immaginata da Freud. Dove questi è schematico, Jung è visionario, in quanto coglie il senso del mistero. Per gli antichi la rimozione mentale della fine è un “gentile oblio”, quasi un pietoso dono ai mortali, che altrimenti non sopporterebbero l’idea di una scadenza ultima. Jung, che dall’Oriente assimila la percezione della morte come momento potenzialmente gioioso, capovolge il meccanismo: la psiche che agisce indipendentemente dallo spazio-tempo è un interessante sintomo che non esclude l’immortalità. Se non arriva a definire l’anima, ci si avvicina, la sfiora: materia oscura, energia invisibile? Forse. di Gian Luca Caffarena  

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