L’arte è bellezza, verità e dolore
La “Venere” di Tiziano Vecellio, uno dei dipinti più potenti e celebri del Rinascimento, ci ricorda che l’arte si porta dentro l’amore e il dolore, la bellezza e la verità di quel genere umano e disumano che siamo.
| Cultura
L’arte è bellezza, verità e dolore
La “Venere” di Tiziano Vecellio, uno dei dipinti più potenti e celebri del Rinascimento, ci ricorda che l’arte si porta dentro l’amore e il dolore, la bellezza e la verità di quel genere umano e disumano che siamo.
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L’arte è bellezza, verità e dolore
La “Venere” di Tiziano Vecellio, uno dei dipinti più potenti e celebri del Rinascimento, ci ricorda che l’arte si porta dentro l’amore e il dolore, la bellezza e la verità di quel genere umano e disumano che siamo.
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La “Venere” di Tiziano Vecellio, uno dei dipinti più potenti e celebri del Rinascimento, ci ricorda che l’arte si porta dentro l’amore e il dolore, la bellezza e la verità di quel genere umano e disumano che siamo.
Chissà quante volte l’avrete vista. Magari distrattamente, magari rapiti. Dalle gambe, dal ventre, dai seni, dagli occhi di cerbiatta e da quella bellezza bella come il peccato. Ma non vi siete mai chiesti da dove venga al mondo tutta quella bellezza che dà senso al mondo. Dalla sofferenza di un amore perduto per sempre e dal rimorso di non avere saputo cogliere la rosa. La “Venere” di Tiziano Vecellio, uno dei dipinti più potenti di quell’esplosione di vita che è stato il Rinascimento, ci ricorda che l’arte si porta dentro l’amore e il dolore, la bellezza e la verità di quel genere umano e disumano che siamo. Tiziano era uno degli artisti più ricercati e più pagati del suo tempo ma chi lo amava più di tutti e più di tutte era la moglie Cecilia Soldani. Lui se ne rese conto quando, ormai, era troppo tardi: quando lei morì. Allora la cercò ovunque, provando a vivere ciò che non visse, amando ciò che non amò e rendendo eterno ciò che era mortale: la sua bellezza, il suo candore, la sua femminilità.
Luca Nannipieri, fra i critici d’arte più bravi, per raccontare la storia della “Venere” di Tiziano non ha scritto un saggio ma un romanzo – “Il destino di un amore” (Skira) – che è una dichiarazione d’amore per Tiziano, per Cecilia e per l’arte del Rinascimento italiano. Cecilia è incinta. Aspetta il terzo figlio ma la gravidanza è complicata. Lei vorrebbe abortire e vivere l’amore. Lui vuole il terzo figlio – Lavinia – e Cecilia sceglie di partorire per creare ancora vita. La vita nasce, lei muore e lui l’eterna con la “Venere”. Il duca di Urbino, Francesco Maria della Rovere, dice a Tiziano: «Voglio un ritratto mio, un ritratto di mia moglie, e poi, per mio figlio, voglio una Venere». È disposto a pagare il doppio per avere «la più bella donna che sia stata raffigurata dal genio umano». Tiziano lo rassicura: «Darò il mio meglio. Niente meno di questo, ve lo assicuro». Il duca insiste, vuole il massimo in tre settimane. Tiziano non lo ascolta nemmeno. Gli dice: «Stiate sicuro: noi moriremo, ma questa Venere resterà».
Dopo due settimane ecco Cecilia-Venere come ancora appare ai vostri occhi con la sua nudità, le sue chiome, le sue rose, mentre dietro al quadro c’è il pianto straziante di Tiziano che invoca l’amore della moglie e il suo perdono: «Nessuno ti amerà mai quanto ti ho voluto io. La notte sei l’ultimo volto, la mattina sorgi nella mia testa come l’alba». Ora, guardate ancora una volta la Venere di Tiziano e sentite l’amore e la sofferenza del pittore mentre accarezza con il pennello la pelle di Cecilia e crea l’amore eterno.
di Giancristiano Desiderio
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