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Leonard Matlovich, da veterano ad attivista gay

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Il caso Matlovich esplose in tutto il mondo, rendendo il suo protagonista una delle figure di riferimento del movimento per i diritti dei gay a livello globale

Matlovich

Leonard Matlovich, da veterano ad attivista gay

Il caso Matlovich esplose in tutto il mondo, rendendo il suo protagonista una delle figure di riferimento del movimento per i diritti dei gay a livello globale

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Leonard Matlovich, da veterano ad attivista gay

Il caso Matlovich esplose in tutto il mondo, rendendo il suo protagonista una delle figure di riferimento del movimento per i diritti dei gay a livello globale

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Questa è la storia di una verità nascosta. La cronaca di una realtà celata agli occhi di un mondo che ne rifiuta l’accettazione e che, quando deve riconoscerne l’esistenza, semplicemente ne cancella ogni traccia. Riportiamo le lancette dell’orologio indietro agli inizi del 1971 in un luogo che sulle prime potrebbe non dire molto, ovvero la sede dell’Air Force Race Relations Classes (Afrrc). Si tratta di un organismo istituito alla fine degli anni Sessanta in America, con il compito di risolvere il problema della conflittualità tra commilitoni di provenienza diversa. Perché quello è un periodo molto particolare: dopo le morti di Malcolm X, di Martin Luther King e del leader del Black Panther Party, Fred Hampton, il Paese è attraversato da forti conflitti razziali dai quali le Forze armate non sono immuni. Il compito dell’Afrrc è di sviluppare, all’interno dell’esercito, quel concetto di integrazione che nel mondo civile stenta a decollare.

Fra gli istruttori c’è un uomo di nome Leonard Matlovich. Sergente dell’aviazione, reduce decorato con la medaglia al valore per aver ucciso due uomini durante la guerra del Vietnam, Matlovich è un eroe che però cela un segreto: il veterano che tutti vedono come l’esempio del perfetto soldato è in realtà omosessuale. E se in quel momento l’intolleranza nei confronti delle persone di colore è un problema serio, quella verso coloro che hanno un diverso orientamento sessuale lo è altrettanto.

Nel 1974 Matlovich fa un incontro destinato a cambiare per sempre la sua vita. In quell’anno conosce infatti Frank Kameny, attivista per i diritti dei gay e presidente della Mattachine Society, un’organizzazione che lotta per il riconoscimento delle persone omosessuali all’interno delle strutture della società. Ed è per questo che il sergente Matlovich trova il coraggio per compiere un gesto destinato a far discutere. Il 6 marzo di quell’anno invia una lettera al Dipartimento delle Forze armate degli Stati Uniti d’America in cui fa coming out. Poi decide di alzare ulteriormente il tiro: l’8 ottobre il settimanale “Time” pubblica in copertina una sua foto in uniforme, accompagnata dalla frase «Io sono omosessuale». È un caso senza precedenti, che sconvolge l’America e provoca un terremoto mediatico. L’esercito è imbarazzato e propone una soluzione: chiudere un occhio, classificando il suo comportamento come «non gravemente sconveniente», a condizione che egli giuri e sottoscriva di «non praticare mai più l’omosessualità». Ma lui rifiuta e, per tutta risposta, il 22 ottobre viene cacciato.

Il caso Matlovich esplode così in tutto il mondo, rendendo il suo protagonista una delle figure di riferimento del movimento per i diritti dei gay a livello globale. La sua battaglia dura fino al settembre del 1980, quando il dipartimento dell’U.S. Air Force, su sentenza del tribunale, ne ordina il reintegro. È un primo passo nella lunga marcia verso il processo di legittimazione delle persone gay all’interno delle Forze armate. Un percorso che, senza il coraggio di Leonard Matlovich, forse non sarebbe mai iniziato.

Quando nel 1988 se ne va da questo mondo (per complicanze legate all’Hiv), affida al suo epitaffio il manifesto della propria vita: «Quando ero nell’esercito mi hanno dato una medaglia per aver ucciso due uomini e un licenziamento per averne amato uno». Ma la guerra che ha combattuto senza indossare una divisa è forse l’unica per la quale è davvero valsa la pena battersi.

di Stefano Faina e Silvio Napolitano

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