Pasolini, cinquant’anni dopo: eretico, censurato, necessario
Oggi 2 novembre, in occasione del 50esimo anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini, ho organizzato a Salò (nella Sala dei Provveditori del Comune) il convegno “50 anni senza Pasolini – Da Salò a Salò”
Pasolini, cinquant’anni dopo: eretico, censurato, necessario
Oggi 2 novembre, in occasione del 50esimo anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini, ho organizzato a Salò (nella Sala dei Provveditori del Comune) il convegno “50 anni senza Pasolini – Da Salò a Salò”
Pasolini, cinquant’anni dopo: eretico, censurato, necessario
Oggi 2 novembre, in occasione del 50esimo anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini, ho organizzato a Salò (nella Sala dei Provveditori del Comune) il convegno “50 anni senza Pasolini – Da Salò a Salò”
Oggi 2 novembre, in occasione del 50esimo anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini, ho organizzato a Salò (nella Sala dei Provveditori del Comune) il convegno “50 anni senza Pasolini – Da Salò a Salò”.
“Salò o le 120 giornate di Sodoma” fu il suo ultimo film. Manco a dirlo, seppure postumo, finì anch’esso – come altre sue opere – nelle maglie di una censura che aveva mandato al rogo “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci, sequestrato “Je t’aime moi non plus” di Serge Gainsbourg e Jane Birkin, vietato la rappresentazione teatrale de “Il Vicario” di Gian Maria Volonté. Intendiamoci, stiamo parlando di un film che trovai rivoltante (e tale è rimasto a riguardarlo). Ma la censura è un’altra cosa. La censura riverbera Giordano Bruno e Urbain Grandier, entrambi bruciati vivi nel Seicento – cioè alla vigilia del salvifico secolo dei Lumi del Settecento – dal furore dell’Inquisizione: il primo a Roma, il secondo a Loudun. Pasolini era invece lo stregone della nuova Italia, quella del benessere: neologismo creato per spiegare il tempo della pancia piena.
Un benessere declinato dal consumo della “Società dello spettacolo” paventata da Guy Debord, padre di quel situazionismo con cui avrebbe fatto i conti anche Pasolini, secondo il quale il benessere aveva stravolto gli italiani perfino antropologicamente. Pasolini è stato processato 33 volte in meno di 30 anni: per oscenità, per offesa al comune senso della morale e del pudore e per vilipendio alla religione di Stato. Papa Paolo IV l’avrebbe certamente accompagnato di persona sulla catasta dalle fiamme purificatrici.
Nell’estate del 2007 ero a Cosenza per un libro sul Sessantotto con Franco Piperno. Il discorso cadde inevitabilmente su Pasolini per quella sua poesia sugli scontri a Valle Giulia fra studenti e polizia. Concordammo che si trattasse di una delle poesie più brutte del Novecento. Al di là di tutte le molteplici e divergenti interpretazioni, demonizzava di fatto un movimento che stava compiendo né più né meno quel parricidio necessario per ogni generazione. Peraltro l’uccisione del padre era stata portata in scena da Marco Bellocchio tre anni prima con “I pugni in tasca”. Quel movimento (mondiale) degli studenti sarebbe stato sconfitto sul piano politico, ma avrebbe vinto su quello sociale. Agli occhi dei boomer, “Il Pci ai giovani!!” – così si chiamava quella poesia – consegnava Pasolini a una cifra reazionaria dalla quale non sarebbe più uscito (Sanguineti: «Paolo era un reazionario; non un insulto, una condizione»).
Negli anni successivi a quel Sessantotto – inteso come un movimento nato prima del 1968 (all’Università di Berkeley nel 1964, al Liceo Parini di Milano nel 1966) e morto con le bandiere ammainate dalla New Left e con il debutto della lotta armata – Pasolini si sarebbe distinto per i suoi scritti corsari anche contro le pulsioni più avanzate della società civile. A livello esemplificativo ricorderò soltanto la sua contrarietà alla legalizzazione dell’aborto in quanto foriera di «una normalizzazione coerente con la società dei consumi». Scritti che invece ci facevano riconciliare con lui quando si scagliava contro il Palazzo, contro l’arroganza del potere.
Ma cosa abbiamo perso cinquant’anni fa: un poeta? Un regista? Uno scrittore? Un drammaturgo? Un regista? Un giornalista? Cos’è stato Pasolini? La carta d’identità di Claretta Petacci riportava “benestante”; quella di qualche imbecille da me conosciuto “Nu” (a significare nobil uomo) o “Nd” (nobil donna). Quella di Pasolini “Scrittore”: una qualifica riduttiva, visto che s’era infatti confrontato anche con la pittura e con la fotografia (vedi gli scatti di Dino Pedriali da lui voluti alla Torre di Chia poche settimane prima del tragico 2 novembre 1975). Per questo oggi il suo nome basta e avanza.
di Pino Casamassima
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- Tag: cultura
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