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Viaggio al termine del Notturno (e oltre) di Gabriele D’Annunzio

Un libro da non dimenticare.
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Viaggio al termine del Notturno (e oltre) di Gabriele D’Annunzio

Un libro da non dimenticare.
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Viaggio al termine del Notturno (e oltre) di Gabriele D’Annunzio

Un libro da non dimenticare.
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Un libro da non dimenticare.
Scrivere al buio. Senza luce. Con gli occhi bendati e la vista quasi andata. Con dolore e intimismo, lontano – seppur per breve tempo – dal mito del superuomo che ha contraddistinto un’intera vita. Stiamo parlando di Gabriele D’Annunzio e di uno dei suoi libri più intensi e innovativi nella prosa, il “Notturno”. La storia che lo precede è questa: nel gennaio del 1916 il poeta, durante una missione aerea, è costretto a un atterraggio di emergenza e rimane ferito dopo aver sbattuto il capo contro la mitragliatrice del suo velivolo. Non gli dà peso, sul momento, e non provvede subito a farsi curare. Un errore che lo porterà a perdere quasi l’occhio destro. Dopo il ricovero in ospedale passerà la  propria convalescenza a Venezia. Nella Casa Rossa. E qui, anziché dettare a voce il dolore e le emozioni, si ingegnerà per scrivere comunque. In che modo lo spiega lui stesso, nel “Notturno”. «Ho gli occhi bendati. Sto supino sul letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco più basso dei piedi. Sollevo leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla tavoletta che v’è posata. Scrivo sopra una stretta lista di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis scorrevole. Il pollice e il medio della mano destra, poggiati su gli orli della lista, la fanno scorrere via via che la parola è scritta. Sento con l’ultima falange del mignolo destro l’orlo di sotto e me ne servo come d’una guida per conservare la dirittura. I gomiti sono fermi contro i miei fianchi». Da questa sfida con il buio, con il dolore e con una postura innaturale viene fuori l’uomo senza il super davanti. Una prosa che per la brevità delle frasi ha in sé echi del futurismo senza però voler assassinare la sintassi. Questo libro, rivoluzionario rispetto alla prosa dannunziana, usciva cento anni fa, nel 1921. A esser pignoli la prima edizione vide la luce per l’editore Treves nel 1916, quando però D’Annunzio non aveva ancora messo l’ultimo tocco all’opera, e vedrà quindi la pubblicazione definitiva – passateci il termine – nel 1921. Ma al di là della cadenza degli anniversari, quel che conta è la materia. Uno scritto che apre – di fatto – la stagione memorialistica (senza volerla sminuire potremmo pure definirla da taccuino dei ricordi) che segnerà gran parte della prosa di D’Annunzio, poi rifugiatosi al Vittoriale. Di quegli ultimi anni oltre alle “Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire” val la pena ricordare il “Di me a me stesso”, dove passione, sesso, nostalgia e politica si mischiano. Senza infingimenti. Mentre s’avanza il notturno della vita e il poeta accetta tutto, tranne la comprensione: «Quel che c’è in me di misterioso, di sfuggente, di incomprensibile, d’inafferrabile – lasciatemelo». di Massimiliano Lenzi

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