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Èmile Zola lo scrittore che amava fotografare

Zola, lo scrittore che amava fotografare

Émile Zola, lo scrittore caposcuola del Naturalismo, si dedicò alla fotografia con accecante passione, utilizzandola al servizio della scrittura
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In queste pagine un’attenzione particolare è stata spesso dedicata all’affascinante categoria degli scrittori-fotografi, forse perché un’immagine ha una capacità di sintesi analoga a quella di una poesia e un reportage sviluppa una storia paragonabile a quella che la narrativa ci consegna con il racconto. A questo genere di artisti – insieme ad August Strindberg e a Lewis Carroll (di cui ci siamo già occupati) – appartiene senz’altro Émile Zola, figlio dell’ingegnere italiano Francesco Zolla.

Nel 1888, a 48 anni, il grande scrittore francese ritrova il vigore della sua gioventù quando scopre due nuovi grandi amori: quello per la fotografia e quello per Jeanne Rozerot, giovane e bella ragazza della classe operaia che gli darà due figli, riconosciuti e accettati dalla moglie Éléonore-Alexandrine detta Gabrielle. Riparte così rinnovato ed energico il suo impegno sociale, stavolta con un telo nero sulla testa e una mira nell’immagine capovolta del grande vetro smerigliato della macchina fotografica di quel tempo, arte alla quale era stato introdotto durante una vacanza a Royan. In breve tempo attrezza ben tre laboratori (nella villa a Médan e nella casa a Parigi) e vi si fa ritrarre davanti, orgoglioso e in abiti da lavoro.

Zola si dedicherà alla fotografia ogni giorno, metodicamente, scattando numerose immagini della sua famiglia e dei suoi amici Cézanne e Maupassant. Utilizzerà il nuovo mezzo espressivo anche al servizio della scrittura: fotografando i treni a supporto della stesura del romanzo “La bestia umana”; realizzando una sorta di photoreportage (aiutato in questo da Luigi Capuana, altro grande scrittore-fotografo) per “Roma”, un libro che accuserà la Chiesa cattolica di plagio dei suoi fedeli e che insieme a “Lourdes” e “Parigi” compone il cosiddetto “Ciclo delle tre città”; ritraendo Londra in lungo e in largo durante l’esilio seguito all’affaire Dreyfus; scattando numerose immagini dell’Esposizione Universale di Parigi, con la Torre Eiffel in costruzione ripresa da ogni angolatura.

«Ritengo che non si possa dire di aver visto una cosa finché non la si è fotografata» sosteneva Zola, che ci ha lasciato circa 6mila scatti, tra lastre 13×18 cm e pellicole 6,5×9 cm. Oggi purtroppo ne rimangono soltanto 2mila nonché diverse fotocamere, tra cui una pieghevole Eastman Kodak Cartridge del 1898 nella sua custodia originale. Materiale rimasto completamente sconosciuto fino quando il nipote pubblicò nel 1979 un volume con 480 immagini, edito da Denoël. Forse è proprio questo tesoro la chiave per studiare e conoscere meglio il caposcuola del “naturalismo”, secondo il quale con la fotografia si era finalmente raggiunta la verità.
Per Franz Kafka con la fotografia si era invece raggiunto il meglio del meglio per poterla manipolare e queste due intuizioni continuano a convivere, costringendoci a dare di volta in volta ragione all’una o all’altra quando guardiamo i media, i social e gli archivi di immagini più o meno riservate, più o meno censurate.

di Roberto Vignoli

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