Per Machiavelli la vita è un intreccio di virtù fortunata e fortuna virtuosa
Nel capitolo XXV de “Il Principe” di Machiavelli qualcosa s’incrina. Entra in scena la Fortuna e s’insinua il sospetto che le cose del mondo siano governate «da la fortuna e da Dio».
| Editoria
Per Machiavelli la vita è un intreccio di virtù fortunata e fortuna virtuosa
Nel capitolo XXV de “Il Principe” di Machiavelli qualcosa s’incrina. Entra in scena la Fortuna e s’insinua il sospetto che le cose del mondo siano governate «da la fortuna e da Dio».
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Per Machiavelli la vita è un intreccio di virtù fortunata e fortuna virtuosa
Nel capitolo XXV de “Il Principe” di Machiavelli qualcosa s’incrina. Entra in scena la Fortuna e s’insinua il sospetto che le cose del mondo siano governate «da la fortuna e da Dio».
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Nel capitolo XXV de “Il Principe” di Machiavelli qualcosa s’incrina. Entra in scena la Fortuna e s’insinua il sospetto che le cose del mondo siano governate «da la fortuna e da Dio».
“Il Principe” procede spedito per venticinque capitoli. La logica implacabile di Machiavelli inanella uno dopo l’altro gli argomenti. Il «castelluccio» – come si esprime Federico Chabod nel suo splendido saggio del 1924 – è costruito da ser Niccolò con grande maestria e nessun aspetto è lasciato al caso. Giunto, però, al capitolo XXV qualcosa s’incrina. Entra in scena la Fortuna e s’insinua il sospetto che le cose del mondo siano governate «da la fortuna e da Dio».
Come è possibile? Che fine ha fatto la logica spietata e scientifica del razionalismo umanistico di Niccolò Machiavelli? Come mai, dopo tanta razionalità, s’introduce il tema del caso? Insomma, il tema della vita che non è tutta razionale. A ben vedere, l’argomento – virtù e fortuna – è sempre stato presente alla mente di Machiavelli e sparso qua e là nelle sue pagine. Quindi, non è un fulmine a ciel sereno. Si dica pure che è il tema principe del “Principe”. Infatti, non a caso è tematizzato nel penultimo capitolo, prima del ‘salto’ nella esortazione finale «a pigliar la difesa di Italia e liberarla dalle mani de’ barbari».
Qui Machiavelli riprende tutti i fili del suo discorso e li riannoda secondo una logica che ai nostri occhi ha un’importanza fondamentale perché nella regola aurea che enuncia – «iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi» – vi è niente di meno che la neutralizzazione della mente statale totalitaria. L’uomo è artefice del suo destino per il cinquanta per cento delle sue azioni e l’altro cinquanta per cento è nelle mani della fortuna.
Ma – ed ecco il punto da evidenziare – la regola non va interpretata secondo una divisione matematica, monetaria o spaziale: metà a te e metà a me, questo è tuo e questo è mio, qua la virtù e qua la fortuna.
Se così fosse, se virtù e fortuna fossero divise in compartimenti stagni, non avrebbe alcun senso la bellissima immagine finale con la metafora della fortuna che è donna e che per la sua natura si fa prendere più dagli «impetuosi» che dai «respettivi» ed è amica dei giovani che sono «più feroci e con più audacia la comandano» e, insomma, che la fortuna aiuta gli audaci. Virtù e fortuna non sono divise ma intrecciate e abbracciate proprio come due amanti. Esistono soltanto insieme e non esistono l’una senza l’altra. La virtù per essere tale non può che essere fortunata o fortunosa e, a sua volta, la fortuna non potrà che essere virtuosa.
di Giancristiano Desiderio
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