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Se la parola mestruazione, secondo alcune ricerche, non è mai stata utilizzata in 25 anni di pubblicità, si ritorna a parlare della possibilità del congedo mestruale in Spagna

Il congedo mestruale in Spagna riapre il dibattito su donne e lavoro

Se la parola mestruazione, secondo alcune ricerche, non è mai stata utilizzata in 25 anni di pubblicità, si ritorna a parlare della possibilità del congedo mestruale in Spagna per proposta di Nadia Calvino, ministro dell’economia spagnolo.
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Il congedo mestruale in Spagna riapre il dibattito su donne e lavoro

Se la parola mestruazione, secondo alcune ricerche, non è mai stata utilizzata in 25 anni di pubblicità, si ritorna a parlare della possibilità del congedo mestruale in Spagna per proposta di Nadia Calvino, ministro dell’economia spagnolo.
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Il congedo mestruale in Spagna riapre il dibattito su donne e lavoro

Se la parola mestruazione, secondo alcune ricerche, non è mai stata utilizzata in 25 anni di pubblicità, si ritorna a parlare della possibilità del congedo mestruale in Spagna per proposta di Nadia Calvino, ministro dell’economia spagnolo.
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Se la parola mestruazione, secondo alcune ricerche, non è mai stata utilizzata in 25 anni di pubblicità, si ritorna a parlare della possibilità del congedo mestruale in Spagna per proposta di Nadia Calvino, ministro dell’economia spagnolo.
L’epoca contemporanea con tutti i problemi ed i difetti che porta con sé, è quella in cui seppur lentamente si sono sdoganate alcune parole, concetti, impronunciabili fino a poco meno di 15 anni fa. La parola mestruazioni, come riportato in un recente post da Freeda, non è stata quasi mai utilizzata in 25 anni di pubblicità ma alcune campagne marketing più o meno recenti, hanno contribuito e supportano lo sdoganamento di un tema che non dovrebbe avere nulla di discriminatorio. Anzi. Tuttavia, a far riflettere, sono le recenti dichiarazioni in merito alla possibile introduzione del Congedo Mestruale retribuito in Spagna, da parte di Nadia Calvino, Ministro dell’economia spagnolo che dichiara: “Se un datore di lavoro sa che una persona mancherà sistematicamente tre giorni ogni mese, capisco che in questo momento possa dire ‘no’. Invece abbiamo bisogno di valorialità femminile, che le donne possano dire la loro nelle sedi apicali”. Soffermiamoci sul fulcro della questione: congedo mestruale retribuito per tre giorni al mese non si dovrebbe tradurre con “mancanza sistematica dal lavoro” ma piuttosto con apertura e possibilità di guardare alla realtà e riconoscere l’esistenza di patologie legate al dolore mestruale, come la dismenorrea, che riguardano circa il 70% delle donne in età compresa fra i 15 e i 25 anni (Libertpub.com) per poi scendere al 25% negli anni successivi e che impattano sul benessere psicofisico delle donne quindi su produttività ed efficienza in ambito lavorativo. Se poi si aggiunge a questo dato anche l’insieme di tutte quelle patologie quali sindrome di PCOS, Endometriosi, Vulvodinia (Giorgia Soleri docet) che sicuramente non alleggeriscono la situazione ma anzi possono essere all’origine della dismenorrea, i dati cambiano e a cambiare dovrebbe essere anche il modo in cui uno Stato approccia a politiche di welfare che tengano conto di casistiche ampie non solo per volume di persone interessate ma per l’impatto sociale che hanno. Riconoscere un congedo mestruale di tre giorni retribuito quindi, diventa discriminatorio nel momento in cui si vuole interpretare una oggettiva complessità di gestione di determinate patologie femminili, con gli occhi di chi fa finta che questo, come tutti gli altri problemi tristemente noti, e amplificati dalla ridente voce della Franchi, non esistano. Certo che andrebbero risolti tutti ma anche risolverne uno per volta potrebbe essere un buon inizio. Si può fingere di star bene, produrre ed essere efficienti nei limiti fisici della cosa. È quello che facciamo ora. Ma ci si può anche ritrovare in pronto soccorso davanti ad una ginecologa, donna, che sminuisce l’entità del problema per mancanza di conoscenza. Si può svenire in metro, in ufficio o per strada o durante una riunione generando un problema di efficienza non risolvibile nell’immediato, contrariamente a quanto si potrebbe fare se invece il problema fosse noto e riconosciuto. Oppure si può lavorare in aziende in cui è possibile usufruire di un congedo retribuito senza che questo sia necessariamente legge (esistono e a dirigerle sì, sono uomini). La discriminazione e marginalizzazione delle donne da parte del datore di lavoro che “possa dire no” all’assenza potenziale della dipendente per tre giorni al mese, previa documentazione specifica, credo si manifesti molto più spesso e molto prima di arrivare a questo punto. Il solo pensare che un potenziale diritto alla salute ed al benessere possa essere discriminatorio e marginalizzare la donna in quanto tale, è già in pectore una volontà di seguire il filone Franchi e aspettare che il giro di boa passi con la menopausa.   di Martina Fiore

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