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Essere solitari non sempre è solitudine

La solitudine è uno dei mali del nostro mondo ma non va demonizzata: secondo la scienza ne esistono di diversi tipi (e non sempre dannosi)

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Essere solitari non sempre è solitudine

La solitudine è uno dei mali del nostro mondo ma non va demonizzata: secondo la scienza ne esistono di diversi tipi (e non sempre dannosi)

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Essere solitari non sempre è solitudine

La solitudine è uno dei mali del nostro mondo ma non va demonizzata: secondo la scienza ne esistono di diversi tipi (e non sempre dannosi)

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La solitudine è uno dei mali del nostro mondo ma non va demonizzata: secondo la scienza ne esistono di diversi tipi (e non sempre dannosi)

La solitudine non se la possono permettere i vecchi, la dovrebbero evitare i malati e anche i politici: perché un politico solitario è un politico fottuto. Lo diceva Fabrizio De André nel suo “Elogio alla solitudine” tratto dall’album dal vivo “Ed avevamo gli occhi troppo belli” (2011). Il cantautore concludeva il suo elogio con una delle sue frasi più celebri e citate: «Un uomo solo non mi ha mai fatto paura, invece l’uomo organizzato me ne ha sempre fatta molta».

In inglese si parla di “solitude” e di “loneliness: la prima in quanto condizione che può essere positiva (per la creatività, la vita interiore, il riposo e la concentrazione) e intenzionale; la seconda, traducibile come isolamento sociale (che richiama alla mente una sofferenza subìta), un ‘sentirsi soli’ anche se si vorrebbe poter contare sugli altri. I ricercatori hanno collegato l’isolamento sociale a una varietà di condizioni di salute fisica e mentale. Questo genere di solitudine – mai scelta e priva di risvolti positivi – è associata a un aumento del rischio di malattie cardiache, demenza, ictus, ansia e depressione. E il contrasto a questa solitudine non scelta ha un’efficacia terapeutica misurabile.

Lo dimostrerebbe uno studio pubblicato di recente sulla rivista scientifica “Jama Network”, che indica come in soggetti affetti da obesità al diminuire dell’isolamento sociale possa calare fino al 36% il loro rischio di mortalità. Non solo: in generale, l’aspetto relativo all’isolamento sociale contribuirebbe – più di altri fattori di rischio legati allo stile di vita – al rischio di mortalità. Al contrario, una migliore connessione sociale è associata a una maggiore longevità e a un migliore benessere sociale, emotivo e fisico.

Nel proprio pezzo sul “New York Times” del 17 maggio scorso (“We All Need Solitude. Here’s How to Embrace It”), Jancee Dunn scrive: «Chiediti: cosa mi nutre e mi ringiovanisce quando sono solo? Per alcune persone, può essere compreso a partire dalla curva di apprendimento. O forse può essere nuotare, sparire nel garage per fare bricolage o darsi al giardinaggio» ipotizza la giornalista. Ma avverte: «Qualunque cosa tu scelga», anche se sei solo nel farlo, «metti da parte il telefono», smetti di scorrere «i titoli dei giornali o i social media», perché «non è tecnicamente ‘solitudine’» pubblicare storie su Instagram!

Dunque, esiste ed è scientificamente dimostrata la necessità della solitudine come modo per «confrontarsi ogni giorno con l’eternità o con la sua mancanza», usando le parole perfette di Ernest Hemingway nel discorso che fece pronunciare in sua vece accettando il premio Nobel per la Letteratura nel 1954. Ma anche Steve Wozniak, cofondatore della Apple, ha sostenuto – dati alla mano – come molti inventori e ingegneri lavorino meglio in solitudine. E Mihály Csíkszentmihályi, psicologo ungherese autore di numerosi studi sulla creatività, ha scoperto che gli adolescenti che hanno difficoltà a rimanere da soli avrebbero minori probabilità di sviluppare abilità creative.

Così non resta che sognare a occhi aperti, con Fernando Pessoa nella sua raccolta di poesie eteronime “Un’affollata solitudine”: «… e poi, chiusa la finestra, il candeliere acceso, senza leggere nulla, né a niente pensare, né dormire, sentire la vita scorrere in me come fiume nel suo letto, e là fuori un grande silenzio come un dio che dorme».

di Ilaria Donatio

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