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Bob Dylan e Bruce Springsteen, cinquant’anni di due capolavori

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Nel gennaio e nell’agosto 1975 la Columbia Records pubblicò due album che oggi sono considerati vere e proprie pietre miliari nella storia della musica. “Blood on the Tracks” di Bob Dylan e “Born to Run” di Bruce Springsteen

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Bob Dylan e Bruce Springsteen, cinquant’anni di due capolavori

Nel gennaio e nell’agosto 1975 la Columbia Records pubblicò due album che oggi sono considerati vere e proprie pietre miliari nella storia della musica. “Blood on the Tracks” di Bob Dylan e “Born to Run” di Bruce Springsteen

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Bob Dylan e Bruce Springsteen, cinquant’anni di due capolavori

Nel gennaio e nell’agosto 1975 la Columbia Records pubblicò due album che oggi sono considerati vere e proprie pietre miliari nella storia della musica. “Blood on the Tracks” di Bob Dylan e “Born to Run” di Bruce Springsteen

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Alla Columbia Records non se la passavano mica male cinquant’anni fa. Nel gennaio e nell’agosto 1975 la storica casa discografica pubblicò due album che oggi sono considerati vere e proprie pietre miliari nella storia della musica. “Blood on the Tracks” di Bob Dylan e “Born to Run” di Bruce Springsteen. Posizionati rispettivamente al sedicesimo e al diciottesimo posto nella lista dei migliori cinquecento dischi stilata da “Rolling Stone”. Intimista il primo, splendidamente potente il secondo. Entrambi ripensati, riscritti con meticolosità, persino riarrangiati.

Dylan aveva paura della monotonia, Springsteen temeva di finire in un fiasco che avrebbe messo a repentaglio la sua giovane carriera. I due artisti – uno affermatissimo, l’altro considerato «il futuro del rock’n’roll» – non erano esattamente nel loro momento migliore. Bob stava attraversando la dolorosa separazione dalla sua prima moglie Sara Lownds (la musa ispiratrice di “Sad Eyed Lady of the Lowlands”). Bruce – nonostante le asfissianti sedute di registrazione – non riusciva a trovare il wall of sound perfetto che aveva in mente. Un mix di Who, Roy Orbison, Bo Diddley e soul.

Le dieci canzoni di “Blood on the Tracks”, ispirate secondo Dylan stesso ai racconti di Čechov, furono prima incise a New York. E poi pesantemente riviste nello studio Sound 80 di Minneapolis. Risultato? L’album, considerato la maggiore prova dylaniana degli anni Settanta, raggiunse il primo posto nella Billboard 200. In seguito, fu certificato disco d’oro e di platino.

I fan sfegatati del vate di Duluth non possono certo dimenticare pezzi ad alta intensità lirica. Come “Simple Twist of Fate”, “You’re a Big Girl Now”, “If You See Her, Say Hello”, “Shelter from the Storm”. «Vivo in un paese straniero ma sto per attraversare il confine. / La bellezza cammina sul filo del rasoio, un giorno la farò mia. / Se solo potessi rimettere indietro l’orologio fino al momento in cui Dio e lei nacquero… / “Entra” – disse lei – “Ti darò riparo dalla tempesta”» (traduzione di Michele Murino). Drammatico, doloroso, essenziale, a tratti insolente (si veda “Idiot Wind”): “Blood on the Tracks” racconta la disperazione e la rinascita insite nell’amore.

Discorso assai diverso per “Born to Run”. Sembra che, in una stanza al civico 7 e mezzo a West Long Branch in New Jersey, Springsteen avesse scritto su un bel quadernetto la frase simbolo della sua poetica di quegli anni. «Tramps like us, / baby, we were born to run». E davvero vagabondo è il disco che attraversa mille peripezie tra litigi, insoddisfazioni, perfezionismi. Fino ad arrivare nella forma in cui lo conosciamo soltanto nell’estate 1975.

Pubblicato il 25 agosto (con l’iconica foto di copertina di Eric Meola che vede il Boss appoggiarsi su Clarence Clemons), “Born to Run” è pieno di epicità e romanticismo. Mary alla veranda in “Thunder Road”. Wendy in fuga nella title-track, i poeti feriti nella «giungla d’asfalto» (“Jungleland”). Con sonorità poderose e una voce indimenticabile Springsteen prende per mano la gioventù americana per posizionarla meglio, in una terra di speranza e sogni. «Il Paradiso» che «ci aspetta lungo il percorso».

Di Alberto Fraccacreta

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