L’ultima (s)crociata, Indiana Jones e il politicamente corretto
Indiana Jones e il politicamente corretto. Indy razzista. È la nuova cervellotica trovata dell’intellighenzia woke, a cui basta un appiglio qualunque per scatenarsi
L’ultima (s)crociata, Indiana Jones e il politicamente corretto
Indiana Jones e il politicamente corretto. Indy razzista. È la nuova cervellotica trovata dell’intellighenzia woke, a cui basta un appiglio qualunque per scatenarsi
L’ultima (s)crociata, Indiana Jones e il politicamente corretto
Indiana Jones e il politicamente corretto. Indy razzista. È la nuova cervellotica trovata dell’intellighenzia woke, a cui basta un appiglio qualunque per scatenarsi
Indiana Jones e il politicamente corretto. Indy razzista. È la nuova cervellotica trovata dell’intellighenzia woke, a cui basta un appiglio qualunque per scatenarsi
Indy razzista. E già che ci siamo, un po’ troppo uomo. È la nuova cervellotica trovata dell’intellighenzia woke, a cui basta un appiglio qualunque per scatenarsi: “Indiana Jones e il quadrante del destino”, l’ultimo film con Harrison Ford nei panni del leggendario cacciatore di tesori. Ma trito e ritrito. Senza più traccia di Spielberg e Lucas dietro il progetto artistico: ormai tutto è targato Disney, che spreme il personaggio fino all’osso per amor di botteghino e dipendenza da remake. La pellicola è uscita a fine giugno, farà i suoi incassi e si perderà nel mare magnum delle operazioni commerciali. Amen. Eppure il “Washington Post” ha colto la palla al balzo per fomentare l’indignazione. Altro che eroe nazionale: il professore-avventuriero, che trafuga sepolcri e abbatte i nemici a colpi di frusta, nel 2023 diventa un poco di buono da rinnegare. Nel migliore dei casi, un macho démodé.
In un primo articolo il quotidiano statunitense spara la tesi delle «origini letterarie razziste di Indiana Jones», inventato da George Lucas negli anni Settanta ispirandosi ai paladini della sua infanzia: dunque Zorro, Flash Gordon e altri superuomini bianchi custodi di civiltà. Ma anche portatori, si scrive, di superiorità etnica e morale. Come l’archeologo sotto accusa: «La serie sfrutta la minaccia nazista per distrarre dal fatto che Indy si appropri delle ricchezze dei popoli indigeni». Senza pagare s’intende, alla Paperon de’ Paperoni. Peccato che un simile affronto, in pieno colonialismo, fosse toccato pure al cuore dell’Occidente: la Grecia aspetta tuttora i marmi del Partenone dal British Museum. È la storia dell’archeologia. Che come la medicina o il diritto – prima di arrivare alla sua versione globale, inclusiva e oggettivante – ha dovuto superare una fase d’antan propedeutica al progresso, dove il confine fra ricerca scientifica e saccheggio era spesso labile. E qui si colloca anche la fiction.
Essere figli del proprio tempo non è una colpa, suggerisce un altro pezzo del quotidiano. Ma essere uomini sì: dunque perché non mandare in pensione il vecchio Indy e «riavviarlo come donna, magari di colore»? Ecco l’altra faccia del politicamente corretto: se non c’è un passato da riparare, c’è un presente da pareggiare. «Il film trasmette un messaggio: mettere in salvo i reperti è un lavoro da maschiacci». E come alter ego letterario non ci si azzardi a scomodare Lara Croft: «È una mercenaria in vestiti attillati». Serve un’eroina pulita, esorta il “Washington Post”, presentando le potenziali candidate – egittologhe o archeologhe forensi di ieri – da trasporre sul grande schermo. Salvo poi ammettere che «ereditare la saga al femminile» sarebbe la soluzione più efficace, come si era vociferato per il prossimo James Bond. Allora ditelo, che è un banale problema di pigrizia creativa. Ma lasciate stare 007, lasciate stare Indiana Jones.
di Francesco Gottardi
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