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Pagare dazio a Happy Days

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Pagare dazio a Happy Days. La serie che più ha inciso nelle nostre liturgie quotidiane e che ha disegnato il futuro del serial tv

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Pagare dazio a Happy Days. La serie che più ha inciso nelle nostre liturgie quotidiane e che ha disegnato il futuro del serial tv

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Pagare dazio a Happy days. Fonzie/Henry Winkler e Richie/Ron Howard in posa per una foto dopo 50 anni, assieme a Potsie e Ralph. Il quartetto di “Happy Days”: un tuffo nel passato, un’immagine serena, rassicurante e non corrosiva dell’America. Una boccata d’aria fresca. Per un secondo ne abbiamo avuto davvero bisogno. In tempi di dazi e di ripetute offese gratuite, umiliazioni e retromarce improvvise che arrivano da Washington e dintorni verso il Vecchio Continente. La sensazione che arriva dalla reunion del quartetto della serie americana record d’ascolti, avvenuta per la prima volta di recente a un festival di Pittsburgh, appare distopica rispetto all’attuale proiezione che noi occidentali abbiamo della società americana. Che per il 43% (ultimo sondaggio Ipsos) appoggia la politica dei dazi a fasi alterne di Donald Trump.

Oltre 250 puntate fino al 1984, esordio sulla Abc e in onda in Italia dal 1977 (su Rai 1). La leggendaria serie tv è ambientata negli anni Cinquanta e Sessanta. Un periodo storico di idealizzazione della vita statunitense successivo alle due guerre mondiali. Anche se si iniziò a girare le puntate nel mezzo degli anni Settanta, quando il Paese era ancora alle prese con il conflitto in Vietnam. L’ideatore, Garry Marshall, nato nel Bronx con origini abruzzesi, pensò che non fosse il momento di proporre una sitcom su un gruppo di ragazzi contemporanei mentre si faceva la conta dei morti in guerra.

“Happy Days” è forse la serie che più ha inciso nelle nostre liturgie quotidiane e che ha disegnato il futuro del serial tv. La serie dei valori tradizionali americani: conservatrice tra perbenismo, chiesa e richiamo della patria. Testimone dell’Occidente che si trova dalla parte giusta della storia.

Una serie idealmente nelle corde di Donald Trump. Che alle presidenziali del 2021 fu anche appoggiato pubblicamente da un personaggio secondario (cioè da Chachi, il cugino di Fonzie/Henry Winkler che invece fece campagna elettorale per Joe Biden). Ma lo stesso Trump preferisce proporci un altro tipo di sceneggiatura. Temuta prima del voto presidenziale di novembre 2024 anche da Ron Howard, regista premio Oscar con “A Beautiful Mind” e di “Elegia americana”, tratto nel 2021 dal libro di memorie di J. D. Vance. Non soltanto per i dazi (che contano eccome) ma anche per la considerazione per gli europei del presidente in carica e poi del suo vice Vance, che ci ritiene dei parassiti. Parole tutt’altro che accomodanti.

Non che in “Happy Days” non ci fosse dentro un po’ di politica. Per le elezioni presidenziali del 1956 (mentre in Europa l’anno successivo sarebbe stato siglato il Trattato di Roma, il primo passo verso l’Unione Europea), Fonzie scelse il repubblicano – e presidente in carica – Dwight Eisenhower. Mentre Richie sosteneva il democratico Adlai Stevenson II. Lo stesso Eisenhower, dopo la sua rielezione alla Casa Bianca, iniziò un viaggio in Europa (inedito nella storia degli Stati Uniti) per consultare i suoi alleati. Da Bonn a Parigi fino a Londra, per dimostrare che l’America non intendeva avventurarsi in un dialogo esclusivo col mondo bolscevico. Né tanto meno impegnarsi in accordi bilaterali con esso. Altri tempi, altra politica. Altra considerazione dell’Europa da parte della White House.

Di Nicola Sellitti

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